Bluesman, rocker, cantautore. Taj Mahal è sempre sfuggito alle etichette. Uomo dai suoni trasversali, pioniere delle contaminazioni, è diventato celebre nei mitici sixties con un altro viaggiatore musicale come Ry Cooder, con il quale si è recentemente riconnesso pubblicando Get on Board, un album vivido focalizzato sulle radici dell'Americana. Tutto il suo percorso artistico risulta caratterizzato da una grande curiosità, dal desiderio di andare oltre l'orizzonte per toccare i generi più disparati e creare qualcosa di nuovo.
Per Mkutano, dato alle stampe nel 2005, Mahal (voce, chitarra e banjo) è andato a Zanzibar con i suoi fedelissimi Bill Rich, basso, e Kester Smith, batteria, a incontrare The Culture Musical Club, un eccezionale ensemble multietnico che sposa sonorità folk, jazz, improvvisazione e il Taarab, ovvero la musica che nella notte dei tempi echeggiava nella corte del Sultano, una fusione di ritmi arabi e africani simbolo di secoli di scambi lungo la costa swahili.
Il disco, nella sua integrità e coerenza, incarna uno di quei rari momenti in cui il blues e le radici africane si avvicinano davvero: ne esce così una world music ammaliante con un fascino esotico e uno spirito magico. Stupore, curiosità e desiderio di approfondire culture e musicalità sconosciute affiorano ascoltando quei misteriosi impasti di violini (ben tre!), fisarmoniche, fiati, percussioni, oud, gamun (sorta di antenata della pedal steel) e voci.
Si rimane colpiti e storditi, in una specie di estasi divina fin dalle prime note della rilettura aspra, ruvida, carnale e assolutamente originale di “Catfish Blues”, e una simile sensazione si era già provata premendo play sull’opener “Dhow Countries”, otto minuti ipnotici in cui Mahal arriva a sussurrare “Africa, Africa”.
Un’altra canzone da brividi è l’evocativa “Done Changed My Way of Living”, scritta a quattro mani con Makame Faki (artista con un ruolo centrale nell’ensemble The Culture Musical Club e autore pure della quinta traccia dell’opera, “Naahidi Kulienzi”), leggendario re del kidumbak, il tamburo tradizionale delle isole di Zanzibar: qui il blues torna davvero alla sua forza primordiale.
In brani quali “Muhoga Wa Jang’ Ombe” e “Mpunga” è invece l’Africa che si spinge in avanti, verso l’attualità, tuttavia senza perdere i suoi connotati carnali, tormentati, fieri. Si tratta di musica popolare al cento per cento, indefinibile proprio perché trasmette emozioni. Una sola origine, ma mille sfaccettature: spesso pare di ascoltare un’orchestra sinfonica folk, tant’è la potenza della formazione. Nella title track e in “M’Banjo” emerge tutto l’intimismo e il virtuosismo di Taj Mahal, durante “Zanzibar” la guizzante chitarra elettrica si contrappone al pulsante modulare acustico delle altre canzoni, dove il taglio percussivo delle frasi, il dolente fremito del canto e gli arrangiamenti ruvidi raccontano la forza evocativa e la libertà dell’artista nato a New York City. Come trasformare il folk in Arte!
Sono passati vent’anni dalla pubblicazione di questo lavoro, tuttavia si rivela ancora estremamente contemporanea l’urgenza di sperimentazione, la necessità di contaminazione cercando un punto di contatto, un crocevia nel quale musiche e sonorità diverse si fondono per scorrere fluide senza ostacoli culturali. Mkutano significa proprio “incontro”, come ribadito dal sottotitolo “Taj Mahal Meets The Culture Musical Club of Zanzibar”, ed evidenzia una fusione ideale, un qualcosa a cui si dovrebbe attingere più spesso in quest’epoca liquida e tristemente instabile, basata sull’ipocrisia del politicamente corretto e soggiogata dal pensiero dominante, purtroppo lontana dall’accettazione e dalla vera integrazione delle differenti realtà.
Come sempre dalla musica si può imparare la vita, una vita che non dovrebbe essere compromessa da guerre inutili e manicheismi insensati. Ce lo dimostra Taj Mahal, un’intera esistenza vissuta a colori in un mondo sempre più in bianco e nero.