Alla fine il concerto l’ha fatto. Dopo la cancellazione dei due show di Stoccolma a fine giugno e dei cinque consecutivi a luglio, a Belgrado, Bucarest, Istanbul, Atene e Šibenik (in quest’ultimo posto, oltretutto, la band era pure arrivata), qualche comprensibile dubbio ci era venuto. Il tour sarebbe ripartito dall’Italia, dove erano stati programmati ben cinque concerti (oltre a quello di ieri sera, Lucca, Roma, Catania e Ostuni) ma le bizze dell’ex Smiths hanno comprensibilmente fatto sì che nulla fosse scontato.
Una faccenda, quella di annullare gli spettacoli adducendo oltretutto motivazioni del tutto improbabili (quest’anno sono arrivate, nell’ordine: la stanchezza della band, la difficoltà di raggiungere le città previste, il mancato supporto dell’etichetta) è una costante nella carriera di Stephen Morrissey, se pensiamo che esiste pure un sito che tiene conto di questi mancati appuntamenti e che, a quanto pare, siamo già arrivati a 200.
Del resto lui è così, questi comportamenti sopra le righe (e oltre) sono parte di tutti quei fattori che hanno contribuito al fascino del personaggio, anche se bisogna ammettere che non è sempre facile, e che in questo e in altri casi diventa decisamente indifendibile (chi si ricorda cosa fece a Roma diversi anni fa capirà cosa intendo).
Ad ogni modo, stasera ci siamo. C’è una storia Instagram già dal pomeriggio, che ritrae l’Anfiteatro del Vittoriale, man mano che passa il tempo di notizie avverse non ne arrivano, così decidiamo che si potesse correre il rischio di avviarsi. Il posto è sold out da mesi ed è comprensibile, se si pensa che è dal 2016 che non passava dalle nostre parti e che la sua fanbase italiana è sempre stata parecchio consistente.
In effetti davanti all’ingresso c’è una lunghissima coda per accaparrarsi il posto migliore sulle gradinate non numerate, mentre in platea la gente è accalcata sotto al palco e non ne vorrà sapere di sedersi, costringendo tutti i presenti a guardarsi il concerto in piedi (che per carità, a livello di atmosfera è stato sicuramente un bene ma ha creato un po’ di dissapori, probabilmente la sicurezza avrebbe dovuto intervenire in qualche modo).
Si inizia poco dopo le 21, al termine di una lunga carrellata di immagini di film e artisti vari, tutti presi dall’ampio spettro dei riferimenti artistici del frontman, e che accompagneranno anche tutte le canzoni del set. Morrissey indossa una camicia scura, rigorosamente aperta sul davanti, ed ha in mano il solito mazzo di fiori che poi getterà in platea.
È “Shoplifters of the World Unite” degli Smiths ad aprire le danze, proposta in una versione convincente, robusta nei ritmi e nelle distorsioni, e con un’interpretazione vocale assolutamente all’altezza. Subito dopo tocca ad uno dei classici della sua carriera solista, “You’re the One for me, Fatty”, tirata e dinamica, con una bella spinta della batteria, e l’entusiasmo è già altissimo. Quando poi parte “How Soon is Now?”, col suo andamento ipnotico e le chitarre che vibrano all’unisono con la sezione ritmica, cominciamo timidamente a sperare che questa potrebbe essere una serata da ricordare.
Moz in effetti appare in splendida forma, sia nella voce sia nell’umore, che sembra sorprendentemente alto: tra un brano e l’altro interagisce scherzosamente col pubblico, spendendo qualche parola su alcune canzoni e facendo battute sulla sua proverbiale aura malinconica e sulla carica depressiva dei suoi testi. In poche parole, gioca col suo personaggio come bene o male ha sempre fatto, ma al contrario di altre situazioni, si dimostra contento di essere lì e arriva addirittura a rispondere a qualche commento sparso da parte dei presenti, che nei momenti di silenzio non perdono occasione per urlargli qualsiasi cosa (abitudine che, lasciatemelo dire, sta diventando sempre più fastidiosa, segno di un narcisismo oggettivamente preoccupante): un Morrissey meno rilassato avrebbe potuto senza problemi abbandonare il concerto…
La band, nell’attuale line up in giro dall’anno scorso, svolge un lavoro egregio: Jesse Tobias (chitarra), Carmen Vandenberg (chitarra, che è italiana da parte di madre e ha vissuto per diversi anni a Lucca, prima di fondare i Bones e suonare a lungo con Jeff Beck), Juan Galeano Toro (basso), Camilla Grey (tastiere) e Matt Walker (batteria) costruiscono un suono potente, solido nella sezione ritmica, con chitarre prevalentemente distorte, assoli piacevoli e mai sovrabbondanti, e le tastiere usate soprattutto come efficace contrappunto. È in linea con quella che è sempre stata la costruzione degli arrangiamenti dei suoi brani solisti: mai troppo elaborati, spesso compatti al limite del wall of sound, perfettamente funzionali alle parti vocali.
E a livello di voce, lo abbiamo già detto, siamo davvero su ottimi livelli: il timbro è sempre quello, malinconico e affascinante, l’intensità interpretativa è notevole, soprattutto quando, nei finali, si lancia nelle sue celebri improvvisazioni che, per quanto meno appariscenti rispetto agli esordi, riescono comunque a dotare i brani di maggiore intensità. Da questo punto di vista, le esecuzioni di due perle degli Smiths come “I Know It’s Over” ed una totalmente inaspettata “Please, Please, Please Let Me Get What I Want” (quasi mai presente negli ultimi anni) sono state davvero da pelle d’oca e da sole hanno valso il concerto. Non c’è Johnny Marr ad intessere fraseggi sulla sua Fender Jaguar, ma sentire questi pezzi dalla voce di colui che li ha incisi e ne ha scritto i testi non ha veramente prezzo.
Il resto della setlist è come sempre molto variegato, non concede troppo alle aspettative del pubblico (tranne nei due famosissimi singoli “Suedehead” ed “Everyday is Like Sunday”) e pesca un po’ dappertutto all’interno di un catalogo solista che, fatto salvo per un paio di lavori poco ispirati, non ha mai avuto punti deboli. Qualunque cosa si scelga, dunque, si va sul sicuro, che siano prese dal periodo più recente di capolavori come Years of Refusal, You Are the Quarry e Ringleader of the Tormentors (“One Day Goodbye Will Be Farewell”, una “I Will See You in Far-Off Places” particolarmente cupa e pesante, una intensa e tormentata “Life is a Pigsty”, “All the Lazy Dykes” cantata con pigra indolenza) o dal passato più remoto (“The Loop”, che ha beneficiato di un’esecuzione particolarmente frizzante, con un gruppo su di giri, oppure la sempre efficace “Jack the Ripper”).
Mancano tante delle hit che ha disseminato per strada, da “First of the Gang to Die” a “National Front Disco”, e al loro posto non si fa problemi ad inserire “Istanbul”, dal semisconosciuto e poco considerato World Peace is None of Your Business, e addirittura due brani tratti dal fantomatico Bonfire of Teenagers, uno dei due dischi che avrebbe terminato di registrare dopo il 2020 e che non ha mai pubblicato perché, a suo dire, non ci sarebbe nessuna etichetta interessata. Vai a capire dove sta la verità: il materiale comunque è ottimo, come stasera dimostrano “Rebels Without Applause” (questa però era uscita come singolo mi pare tre anni fa) e “Sure Enough, the Telephone Rings”, incalzante e dotata di un ritornello melodico e coinvolgente come lui è sempre stato in grado di scriverne. In rete si trovano altri pezzi che sono altrettanto buoni, chissà se riusciremo a goderne in versione ufficiale, prima o poi.
Il momento dei bis arriva presto, troppo presto. È passata poco più di un’ora e venti quando i sei ritornano sul palco per i saluti finali: Moz si avvicina al microfono, ringrazia per l’ennesima volta il publico e ammette, in un momento che sembra di disarmata sincerità, che cantare la sofferenza emotiva per tutti questi anni ha comportato un prezzo alto da pagare, ma che è contento di averlo fatto. Dopodiché, invita ciascun membro della band a dire qualcosa al microfono, un momento inusuale e significativo, che ha sottolineato un affiatamento ed una coesione che ci ha francamente sorpreso e che non può che essere di buon auspicio per il futuro.
Dopodiché tocca ad un altro brano degli Smiths, il quinto di questa sera (quasi un record, in effetti): “Last Night I Dreamt that Somebody Loved Me” è lenta e struggente, ma durante la prima strofa sembrano esserci alcuni problemi tecnici, con il cantante che salta qualche verso ed un membro dello staff che gesticola in direzione del mixer. Si tratta comunque di un’esecuzione più che discreta, ma prima della fine del brano saluta in maniera un po’ sbrigativa e se ne va, col gruppo che conclude le ultime battute e lascia il palco. Ci sarebbe dovuta essere un’altra canzone, “Irish Blood, English Heart” ma le luci si accendono ed è evidente che sia finita qui. Ultimo capriccio da parte di un artista che fino all’ultimo ha dovuto tenere fede alla sua nomea? Può anche darsi ed è un peccato perché, per come stava andando, un altro pezzo sarebbe stata la ciliegina sulla torta. È anche vero però che si è trattato di un concerto bellissimo, per certi versi superlativo, e che vedere Morrissey e la sua band così in forma non era scontato e ci ha fatto davvero piacere.
Certo, rimangono tante incognite: usciranno, alla fine, questi benedetti dischi? Porterà a termine le date italiane e quelle nel resto d’Europa, per non parlare poi degli Stati Uniti in autunno? Una risposta ovviamente non c’è e con lui si sa che bisogna navigare a vista. Stephen Morrissey ha scritto tutto quello che ha scritto anche (e forse soprattutto) in virtù di questa scomoda ed ingestibile sregolatezza: è il motivo per cui è al contempo adorato da una nutrita schiera di fan, e detestato da tutti gli altri.
A noi, sinceramente, piace anche così. In fondo, per chi volesse il lato più professionale e razionale degli Smiths, c’è sempre Johnny Marr; che a novembre sarà da noi e che vale ugualmente la pena di essere visto…
Scaletta della serata:
Photo Credits: Davide Mombelli