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REVIEWSLE RECENSIONI
18/12/2019
Motta
Motta dal vivo
E' un bene che ci sia un disco così. Che ci fa capire che il cosiddetto Indie italiano, anche dopo la sbornia dei primi anni Duemila, è in grado di ridefinire nuovi percorsi e di declinarsi al presente.

Un disco dal vivo di Motta era necessario e non è arrivato troppo presto, nonostante i dischi in studio siano al momento solamente due. L’ex Criminal Jokers ha sempre avuto sul palco la sua dimensione ottimale e chiunque l’abbia visto anche solo una volta in azione sa benissimo che il suo punto di forza sta proprio qui: band affiatata e carichissima, pezzi riarrangiati che in sede live acquistano tiro, potenza e fascino di gran lunga maggiore rispetto alle versioni originali. Esattamente il contrario di quanto accade normalmente con gli artisti della sua generazione, che prima incidono e solo successivamente pensano a salire sul palco. Motta è nato dal vivo, ha fatto tanta gavetta sia come fonico degli Zen Circus, sia con la sua prima band ed è arrivato alla prova solista già pienamente consapevole dei propri mezzi.

“La fine dei vent’anni” è stato un disco epocale, nel senso che, volente o nolente, ha segnato un’epoca, ridefinendo il canone di un certo modo di fare musica etichettata come indipendente e offrendo al contempo uno spaccato significativo della cosiddetta “Generazione Z”.

Fino ad un certo punto è stata importante la collaborazione con Riccardo Sinigallia. Certamente l’artista romano ha giocato un ruolo decisivo nel confezionare il vestito ma non si è certo sostituito a Motta nella scrittura dei brani (a parte il famoso episodio di “Sei bella davvero”, che se non fosse stato per lui non sarebbe mai entrata nel disco). La riprova l’abbiamo avuta con “Vivere o morire”: la produzione di Taketo Gohara ha declinato il songwriting in maniera differente, più contemplativa, con un maggior ruolo della componente orchestrale a discapito di quella chitarristica; ciononostante, la qualità è rimasta la stessa. Meno impatto, niente più effetto sorpresa (lo ha detto anche lui nella title track che “di cambiare accordi non me ne frega niente”) ma il fascino, almeno per quanto mi riguarda, è rimasto inalterato.

La partecipazione a Sanremo (dove ha portato, ironia della sorte, un brano che è forse il più debole del suo repertorio) gli ha fatto guadagnare una maggiore visibilità ma non lo ha per questo snaturato nella percezione comune (leggi: è rimasto un artista tutto sommato di nicchia). Per cui ben venga questo disco dal vivo, testimonianza del concerto tenuto a Roma, la sua città d’adozione, nella Sala Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica. Una venue d’eccellenza, che valorizza al meglio un repertorio di prima scelta, presentato nella sua quasi totalità, con gran parte delle tracce dei due album, il brano sanremese “Dov’è l’Italia”, eseguito in un suggestivo duetto con Nada, una lunga versione di “Cambio la faccia”, dal canzoniere dei Criminal Jokers, con la partecipazione della sorella di Francesco, Alice.

L’elemento più interessante è senza dubbio che gli episodi di “Vivere o morire” risultano più carichi e d’impatto, con la band che spinge a dovere e li rende più vicini, per intenzione, alle cose più vecchie e ormai stracollaudate (“Sei bella davvero”, “Se continuiamo a correre” e la conclusiva “Roma stasera” sono ormai dei classici e rappresentano anche qui il fulcro dello show, il punto dove abilità di songwriting e potenzialità della band trovano la loro sintesi più autentica).

C’è un solo dettaglio, che a mio parere dettaglio non è, che mina quasi completamente i lati positivi che abbiamo appena individuato: tra un brano e l’altro c’è sempre un fastidioso stacco in fade, nel senso che le canzoni vengono proposte come se fossero prese da concerti diversi e non come parte di un unico spettacolo. Voi direte: “Chi se ne frega?” e invece secondo me è un errore imperdonabile perché fa perdere tutta la fluidità all’insieme, impedendo di riprodurre a pieno l’atmosfera del concerto e di cogliere fino in fondo quel che davvero è un suo live.

Detto questo, è un bene che ci sia un disco così. Che ci fa capire che il cosiddetto Indie italiano, anche dopo la sbornia dei primi anni Duemila, è in grado di ridefinire nuovi percorsi e di declinarsi al presente.


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