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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
01/10/2025
Live Report
Mulatu Astatke, 28/09/2025, Città del Teatro, Cascina, Pisa
Mulatu Astatke, 82 anni, è il primo a creare l'Ethio Jazz, fondendo le sue radici africane al jazz. Quella a Pisa è una delle due date italiane del tour d'addio alle scene. Una sala gremita e un'emozione incontenibile quella di poter ascoltare e vivere sulla propria pelle Astatke e il suo settetto all'opera. Qui un minuzioso racconto della serata, tra tecnica e cuore.

Chi non conosce Mulatu Astatke? Beh, non vi preoccupate, non c’è da sentirsi in colpa, visto il mondo di nicchia e non certo radiofonico o commerciale di cui fa parte.

E poi le cose arrivano quando devono, deve averlo capito lui stesso, classe 1943, quando dopo aver cominciato la propria carriera musicale nelle città di Boston (primo africano a diplomarsi al Berklee college) e in seguito New York, senza spiccare un vero e proprio volo, vide cambiare le cose negli anni Novanta, a cinquant’anni suonati, quando il suo nome cominciò a circolare tra i cultori di vinili e di musica da riscoprire.

E in effetti la sua lo era. Di nazionalità etiope, Mulatu fuse le proprie radici africane con gli studi jazzistici, fino a creare - in quei decenni fondamentali e innovatori che scavallavano la metà del secolo scorso, un sapore interessante e assolutamente originale - l'Ethio Jazz come ricorda lui stesso ogni volta che può; dove gli incastri ritmici tipici del vecchio continente andavano a smussare l’armonia talvolta complessa del genere jazzistico, il suo vibrafono e i suoi accordi pianistici detergevano il mondo sonoro di candore e sospensioni, mentre i fiati si destreggiavano in quei temi che spesso lambivano i sapori arabeggianti.

Contrabbasso e ritmi non potevano poi non contribuire con il loro suono e con la regolarità del bordo del rullante, all’immancabile dose di sapore latino, che negli anni poco precedenti agli studi di Mulatu avrebbe trovato in Esquivel, di nazionalità messicana, un degno corrispondente e predecessore, in quanto a fusioni generistiche e innovative (Other Worlds Other Sounds, 1953).

 

E deve averlo capito che le cose cambiano anche a metà anni Duemila, quando alcune delle sue composizioni migliori vennero messe nella colonna sonora di Broken Flowers, pellicola di successo di Jim Jarmusch, contribuendo ancora in maniera più decisiva alla conoscenza del suo sound.

Era, in realtà, già in corso un’opera di idolatrazione di quel sound africano che sembrava nascondere il nocciolo della questione sull’esplosione del funk rock dei primi Novanta, grazie ai Red Hot Chili Peppers e di conseguenza al loro padrino George Clinton. E in seguito sarebbe tornata a passare dall’Inghilterra questa consacrazione dell’Africa, ma stavolta sottolineando l’afrobeat, grazie a Damon Albarn, l’ex Clash Paul Simonon, Simon Tong e Tony Allen, guru del genere e colonna ritmica portante di Fela Kuti.

Erano The Good, The Bad & The Queen e ricordo che ascoltarli per la prima volta in quei primi Duemila, a me, fresco ventenne, reduce dal funk anni Novanta di cui sopra, parvero l’apertura di uno scrigno.

 

Quest’introduzione doverosa per farvi capire cosa possa aver provato nel vedere all’opera Mulatu Astatke, 82 anni, in questi giorni al centro del suo “Farewell Tour”.

Siamo alla Città del teatro di Cascina, provincia di Pisa, una delle due date italiane di questo che viene pubblicizzato velatamente come il saluto alle scene di Mulatu.

Non so cosa aspettarmi, non cerco informazioni, a parte quelle che scorgo dall’ufficio stampa, non voglio sapere niente sulla band che lo accompagnerà. Leggo soltanto che il tour di addio presenterà il disco appena uscito Mulatu plays Mulatu nel quale vecchie e nuove composizioni si vestono di un unico sapore.

La sala è gremita, le luci che illuminano il palco pieno di strumenti valorizzano i colori legnosi e le postazioni che diventano d’un tratto emozionanti, percepisco la quiete prima della tempesta. È uno di quei concerti ideali, teatro con la giusta capienza che in caso di sold out non ti fa sentire il tipico soffocamento dei concerti evento cui ci vogliono far abituare sempre di più. Un luogo da salvare, la dimensione intermedia dei concerti, dove vedere un live possa essere ancora un’esperienza memorabile quanto l’ascolto di un disco.

Torno con gli occhi sul palco e svetta il suo vibrafono, centrale e davanti a tutti, in mezzo a due monitor audio e poco avanti al resto della postazioni di Astatke, un Fender Rhodes messo di profilo e delle percussioni a completare il quadro.

Dietro di lui, centrale il contrabbasso messo d’un fianco, sul palchetto di fronte all’ampli di backline.
Il bilanciamento del palco è tenuto in pedi dalla sezione ritmica sulla destra, con il mondo percussivo in prima fila  accanto al band leader e la batteria dietro a chiudere il semicerchio verso il contrabbasso. Al lato opposto, si intuisce la presenza di due fiati in prima linea, alla sinistra, che danno le spalle alla postazione arretrata pianistica e tastieristica. Le retrovie sono chiuse da un altro arco, stavolta un violoncello anch’esso sdraiato che fiancheggia il contrabbasso.

 

Poco prima delle 21.30 le luci si abbassano appena e salgono i musicisti, un settetto di prim’ordine e abituati pressoché tutti ad accompagnare il maestro da tempo. Band inglese, con l’esperto e talentuoso John Edwards al contrabbasso, il giovane Jon Scott (già nei GoGo Penguin) alla batteria, l’anglo-nigeriano Richard Olatunde Baker alle percussioni, il maestro Alexander Hawkins ad occuparsi dell’aspetto pianistico, Danny Keane al violoncello, per chiudere con il fidato James Corben, sassofonista e flautista ed un trombettista che non riconosco essere il solito Byron Wallen, e sarà un peccato non conoscerne il nome.

Un’introduzione sonora, rumoristica, di quelle che non lasciano spazio a fraintendimenti, c’è voglia di esplodere, il terreno che sembrava saldo si sta sbriciolando, i suoni si fanno spazio; la voce di Corben prende forza ed introduce lui, il Professore Mulatu Astatke. Si guadagna il frontepalco fino alla sua postazione, godendosi l’ondata di applausi, prende il microfono e con un una voce delicata saluta e si presenta, intrufolandosi velatamente negli applausi, fregandosene di essere sentita o meno e di fatto costringendoci a spezzare il tibuto a metà per capirlo.

Presenta il brano "Tsome Digua" e, dopo un piccolo intoppo tecnico al vibrafono che costringe i musicisti a restare appesi all’introduzione, gli accordi lunghi ed eterei dello strumento cominciano e via, il ritmo è libero di partire.

La cosa più sincera che posso dire a questo punto è che per i restanti cinquanta minuti sono rimasto stretto e legato alle canzoni e alla musica. Non ho avuto spazio di percepire un rallentamento musicale o emotivo, almeno fino a quel cinquantesimo minuto in cui ho pensato letteralmente di voler capire quanto tempo fosse passato.

Dopo l’inizio con "Tsome Digua", nei quali dieci minuti di canzone vengono presentati didascalicamente tutti gli ingredienti, dall’atmosfera dilatata, al ritmo latino, i temi stretti dei fiati, lo swing, il momento solistico (in questo caso del sassofonista Corben) e gli stacchi obbligati, c’è stata la giusta ovazione, interrotta dalla voce di Mulatu, intento a presentare il suo Ethio Jazz e la canzone a seguire.

"Yèkèrmo Sèw" è un classico di Mulatu del 1974 e rimarrà un’assoluta perla della serata con quella sua alternanza tra vibrafono e ritmo latin, e con quel quattro quarti dritto che quando parte ti stende. Ricordo che stavo tenendo il tempo e non ne volevo sapere di smetterla di muovermi, la seduta teatrale cominciava a starmi stretta. La canzone parte e spinge sempre di più, la dilatazione lascia spazio ad un groove puntato ed incalzante, il contrabbasso, con un giro che mi ricorda il tema contrabbassistico del film Ocean’s Eleven (di cui lo stesso afrobeat è ispiratore, sia chiaro), tiene in piedi tutto, dando la possibilità al trombettista di spiccare in un lungo e riuscitissimo soli, di quelli che non dovrebbero finire mai. Tema finale e boom. Siamo esplosi alla fine dei quindici (15) minuti di canzone.

 

Ogni canzone è presentata dal nostro maestro, che fiero passa lento lo sguardo sulla propria band, senza perdersi nessuno. La successiva "Nètsanèt" riesce a portare l’asticella ancora più in alto e sono sempre qui che mi chiedo come abbia potuto.

Un’intro chitarristico (ah già, ma non c’è la chitarra…) di violoncello, un suono aggrottato, di accordi, legnoso e sublime che introduce la linea di contrabbasso, un sei quarti che non ho smesso di contare e ballare per tutti i dieci minuti che ne sono seguiti. Un solo di piano che resterà come una delle migliori cose della serata, il tema liberatorio che chiude ogni sezione, fino a rilasciare spazio al violoncello che stavolta prende in mano la situazione e si unisce al caos più puro. Mulatu in piedi alle percussioni, con lo sguardo dritto e fiero, sembra scrutare un punto del pubblico. Ultimo tema di fiati, obbligato e canzone pienamente riuscita.

Il contrabbasso di John Edwards comincia il successivo brano, "Kulun", e non posso non pensare a Jaco, Hancock e a quel momento unico di registrazione su nastro che furono “Kuru/Speak like a child”, con quel brano difficile che non ne voleva sapere di venire registrato suonando separati e Jaco disse col suo tipico fare spaccone di registrarlo tutti assieme. Creando appunto un momento unico.

Promette bene. Il tema di contrabbasso chiama il battito deciso di mani, siamo upbeat, ma ancora latin, la canzone si evolve, un classico più recente di Astatke, scritto e orchestrato nel 2006 alla perfezione e dove i temi aggressivi si fanno spazio a spallate come un’onda che cammina. Dopo cinque minuti di fragore la canzone tocca l’apice e si acquieta, lasciando spazio ai rumori.

Ecco il momento più alto del concerto e non me lo aspettavo. Il contrabbassista John Edwards parte dai rumori legnosi, di archetto sul legno, fino ad arrivare alle corde che miagolano in alto o distorcono in basso. L’improvvisazione toccata in questo momento è una classe sopraffina e onestamente non ricordo l’ultima volta in cui abbia assistito ad una cosa del genere.
Sono ancora dentro al ritmo, non ho ancora smesso di tenere il tempo.

Il contrabbasso esce dal solo grazie al reprise dei temi di fiati che sembrano liberatori ma ci incastrano in un momento ancora transitorio. Ci pensa la batteria di Scott a tenere la cassa dritta e pompata, lasciando spazio al clavinet che crea il tappeto giusto ai temi dei fiati che seguono.
La canzone pare non volerne sapere di chiudere, tocca ogni volta un apice più alto fino a dissolversi in briciole di tempo che ripartono. L’ultimo momento, che tocca profeticamente alle percussioni, è il più decisivo nell’indirizzarsi al tema finale, coinvolgendo il pubblico in un battito di mani e riportandoci al punto d’inizio.
La canzone si esaurisce e finisce lasciandoci sfiniti.

Applauso liberatorio e meritato, stiamo assistendo ad un concerto di livello pazzesco e di un’intensità disarmante.

 

Comincia la canzone successiva, prima della quale viene presentato il percussionista Olatunde Baker e finalmente, dopo trenta secondi di samba decisa, percepisco una sensazione di rilascio; sarà stata un’armonia più prevedibile, un richiamo palese a qualcosa di John Barry, non lo so, ma ho proprio smesso di tenere il tempo e ho deciso di capire quanto fossi durato in quell’apnea; 55 minuti.

Mi stupisco e rilasso, sento appena la stanchezza ma approfitto della canzone più gioviale per distendere le gambe e fare un paio di foto. La canzone è "The Way to Nice" ed è piuttosto recente essendo tratta da Mulatu Steps Ahead del 2010. Ho la sensazione di essere al decimo pezzo ma, adesso che sono a bocce ferme e posso, faccio il conteggio e realizzo di essere stato in quel momento soltanto al quinto brano. I brani sono lunghi e intensi, percepivo di essere a tre quarti di concerto.

James Corben, che sul solo di sax del primo brano mi aveva lasciato interdetto per il linguaggio spiccatamente tecnico, prende in mano il flauto, come il territorio sudamericano richiede, e stavolta la sua tecnica, mischiata al suono dolce dello strumento, mi conquista. Porta il brano in alto, stacco terzinato e percussioni lasciate da sole a gestire la parte centrale.
Congas, canti vocali di Olatunde che portano alla tradizione, mani che battono ancora e partecipano ed ecco che siamo davvero in Africa, dove le sue radici nigeriane affondano. Scopro delle sue esperienze con Tony Allen e Sean Kuti e non poteva che essere altrimenti.
Ripresa globale, tema finale e stacco di chiusura. Canzone riuscita, anche se continuo a sottolineare questa piccola discrepanza emotiva col resto che mi ha strappato dal trascinamento emotivo. Forse era necessario, ne avevo bisogno.

 

Mulatu presenta un classico, e il pubblico lo accoglie con una giusta ovazione. "Yègellé Tezeta", anno 1972, comincia col suo riconoscibile tema a stacchi e boom, batteria dritta, organo e contrabbasso ti risucchiano nel vortice. Mi colpisce il vigore dell’organo, il tema di fati a canone con i dovuti accavallamenti tra i due strumenti. E poi (più di tutti) nella ripetitività del ritmo di batteria, uno dei più classici quattro quarti upbeat, viene caratterizzato ogni otto misure da questo colpo di rullante, che pare voler cambiare qualcosa salvo non fare niente e tornare nel groove e la magia è tutta lì. Il tiro che non si spezza, ti da un colpetto sulla spalla ma poi ti giri e non c’è nessuno. E ti ritrovi da solo con il groove di prima, che avevi fatto l’errore di lasciare per un attimo, il tiro che è più forte di tutto. La canzone è un treno, si stoppa per un break teso e trattenuto, un minuto di bollimento emotivo fino alla nuova esplosione, ultimo tema e fine canzone. L’unica che dura quattro minuti e comincia a sapere di finale.

Mulatu prende la parola e presenta la canzone con cui vuole salutarci, scritta da e per sé, non a caso intitolata "Mulatu". Si siede al rhodes e comincia a girare intorno ad una melodia di piano elettrico che mi sposta il pensiero su Miles e su "In a silent way". La band comincia a sostenerlo col ritmo, siamo a Cuba, in un’atmosfera appena più dilatata dall’armonia che sembra puntare a qualcosa di psichedelico e riflessivo. Tromba e flauto, sempre sapientemente doppiati dal violoncello, gestiscono il tema. Si va giù di dinamica e tocca a Mulatu stesso posarsi su note e melodie, improvvisando e mostrando tutta la sua trovata pacatezza, complice questa rinnovata veste data al brano (rispetto all’originale del 1972) da questa formazione.

Il brano è riflessivo più che tirato e sembra volerci accompagnare a dormire, l’atmosfera si spegne molto lentamente con un lungo e riuscito fade out, ultimo accordo tenuto e morbida cesura affidata come sempre al pugno del maestro che si chiude verso il batterista Jon Scott.

Tutti in piedi, in sala e sul palco, perché è l’ultimo pezzo in scaletta. Mulatu ci saluta, ringrazia e non passa molto prima che dica lui stesso “One more!”. C’è entusiasmo, vuole salutarci come si deve.

 

Scott batte il quattro e parte "Yèkatit", ancora appartenente al decennio '65-'75, da cui è tratta la maggior parte della scaletta. C’è tiro, temi ed è l’ultimo giusto omaggio al messaggio portato in questi cinquant’anni da Mulatu Astatke col suo Ethio-Jazz. C’è tempo a metà canzone per un momento di “drum & double bass” in cui Scott e Edwards dialogano su territori improvvisati e pericolosi, senza però cadere nella tentazione di autoincensarsi sulla tecnica già abbondantemente messa sul piatto. È un solo collettivo dal sapore trascinante ed emotivo, è la pelle che vince implacabile il suo contrasto con la tecnica ed ancora una volta il contrabbassista Edwards sale in cattedra.

Reprise finale, tema, tromba che spara alto e riecheggia ancora nel silenzio che è seguito allo stacco finale in quel bellissimo attimo di fiato trattenuto che precede l’ovazione.

 

Tutti in piedi, di nuovo, luci accese, musicisti che posano gli strumenti, danno il loro saluto ed escono, tecnici sul palco che cominciano a smontare. Musica di sottofondo che parte dall’impianto per accompagnarci all’uscita. Eppure quel ritmo non ne vuole sapere di finire.

Ma non sono soltanto io stavolta. Siamo tutti a battere le mani in un battito collettivo che proprio non ce l’ha fatta a far smettere l’applauso finale fino a diventare questo richiamo, questo clap cui il nostro non si sottrae. Sale lentamente sul palco, va alla sua postazione “Just to say thank you, you’are a great /great audience…”.

Chiude dolcemente il pugno, come se volesse dirigere anche la chiusura del nostro saluto e a questo non possiamo che obbedire.

Adesso che ce lo ha detto, possiamo davvero salutarci.