Diciamolo subito, in chi scrive le aspettative per il nuovo album di Anohni and the Johnsons non erano alle stelle. Dopo sei anni di silenzio (il lavoro più recente della cantautrice britannica ma newyorchese d’adozione è l’EP del 2017 Paradise), che diventano tredici da quando Anhoni ha utilizzato per l’ultima volta la sigla “and the Johnsons”, le incognite erano molte di più delle certezze. E se consideriamo che Anohni si era allontanata dal pop barocco del gruppo madre per esplorare (sulla scorta della collaborazioni con Björk e Hercules and Love Affair) il suo lato più elettronico, è chiaro che le riserve nei confronti di My Back Was a Bridge for You to Cross erano per lo meno giustificate. Ed invece il disco – bisogna ammetterlo – è una gran bella sorpresa.
Ma andiamo con ordine. Rispetto alla formazione che ha suonato in Swanlights, l’ultimo disco pubblicato dalla band, i cambiamenti sono stati molti e ora, al fianco dei veterani Doug Wieselman (ance) e Rob Moose (archi), troviamo il batterista Chris Vatalaro, il bassista Sam Dixon e i chitarristi Leo Abrahams e Jimmy Hogarth. Quest’ultimo, già al lavoro con Amy Winehouse (Frank) e Duffy (Rockferry), si è anche occupato della produzione artistica del disco e della selezione dei musicisti che compongono questa nuova incarnazione degli Anohni and the Johnson.
La presenza in line-up di due chitarre non è casuale, dal momento che se c’è uno strumento che domina il disco, ebbene è proprio questo. Per My Back Was a Bridge for You to Cross Anohni ha attuato una scelta radicale, stravolgendo completamente il sound della propria band, un tempo fondato sul dialogo tra gli archi e il pianoforte. Con grande sorpresa, qui Anohni rinuncia al proprio strumento di elezione, concedendo ampio spazio alle sei corde di Abrahams e Hogarth. Il risultato è un suono estremamente originale, capace di mettere insieme il soul anni Sessanta e Settanta (What’s Going On di Marvin Gaye è stato una delle principali ispirazioni di Anohni durante la realizzazione del disco) e il post punk anni Ottanta e Novanta di band come Nick Cave and the Bad Seeds e Swans.
Registrato rapidamente, con la maggior parte delle canzoni che hanno mantenuto le voci delle demo originali di Anohni, My Back Was a Bridge for You to Cross è un album che riesce a trasmettere allo stesso tempo una sensazione di leggerezza e di pesantezza. Leggerezza perché attraverso le canzoni Anohni si libera di molti fardelli, affrontando in modo diretto diverse tematiche politiche, sociali e personali, che le permettono per la prima volta di essere se stessa. E pesantezza perché il sound proposto è crudo, a tratti violento e carnale, con escursioni che lambiscono il noise (“Go Ahead”).
Con una copertina che presenta una fotografia dell’attivista Marsha P. Johnson – nota per il suo importante contributo al movimento per i diritti LGBTQ negli Stati Uniti e ispiratrice del nome della band – My Back Was a Bridge for You to Cross è allo stesso tempo il disco più politico e personale di Anohni. Personale perché uno dei temi cardine del disco è l’elaborazione della perdita, al centro di canzoni come “It Must Change”, “Sliver of Ice”, che ripercorre poeticamente gli ultimi momenti della vita del suo mentore Lou Reed, e “Can’t”, una pezzo soul contraddistinto da un testo alquanto brutale nella sua onestà («I don't want you to be dead»). E politico perché in diversi pezzi Anohni tratta temi a lei cari, come i diritti e il rapporto tra uomo e natura, al centro di “Why Am I Alive Now?”, un grazioso folk pastorale che si trasforma in un inno dedicato al nostro pianeta morente.
Il disco si chiude con “You Be Free”, dal cui testo è tratto il titolo My Back Was a Bridge for You to Cross. Assieme alla canzone precedente, la appena menzionata “Why Am I Alive Now?”, va a formare una sorta di dittico, dal momento che – letti uno di seguito all’altro – , i titoli delle due canzoni assumono la forma di un dialogo rivelatore sul senso della vita che, parafrasato, fa più o meno così: Perché sono vivo? Affinché tu sia libero. Forse il punto focale dell’intero disco sta proprio qui, nella volontà da parte di Anohni di fungere da supporto, da punto di riferimento per una nuova generazione di attivisti LGBTQ. In poche parole, di ricoprire quella funzione di “ponte” di cui si fa cenno nel titolo del disco, come Boy George (suo ospite nel capolavoro I Am a Bird Now) e Marsha P. Johnson lo sono stati per lei. Un scopo molto nobile per un ritorno sulle scene, aiutato da una manciata di canzoni che sono tra le migliori e più catartiche della sua carriera.