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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
21/07/2025
Solomon Burke
Nashville
Nashville, registrato in soli otto giorni a casa del produttore Buddy Miller, segnala un meditato ritorno al country del Re del rock & soul. Un altro piccolo capolavoro nascosto da riascoltare a quasi ormai vent’anni dalla pubblicazione.

Solomon Burke e il country: storia di una passione senza confini. Scorreva il 1961 quando l’artista (1940-2010) ottiene il primo grande riconoscimento di pubblico e di chart con una versione gospel di "Just Out of Reach(of My Two Open Arms)", brano registrato già da diversi cantanti del genere, tuttavia con ben poca fortuna. Ed ecco tornare "The King of rock and soul" laddove la sua carriera aveva avuto avvio. Un riavvicinamento che pare meditato a lungo e non stupisce più di tanto, tenuto conto del suo eclettismo e dell’allora recente passato discografico.

Nashville, inciso in soli otto giorni a casa di Buddy Miller, vero maestro di cerimonie (e, ovviamente, produttore dell’album) che ha messo a disposizione di Burke un cast di autori, interpreti e musicisti da sogno e un songbook ritagliato su misura, raggiunge un'alchimia tale da farlo sembrare ancora meglio dei precedenti lavori. E non solo per le canzoni, ve ne erano di sublimi anche nei dischi pubblicati alcuni anni prima (ad esempio l’eclettico Don’t Give Up on Me, 2002, vincitore di un Grammy), e, in verità, nemmeno per il pur eccellente lavoro degli artisti che affiancano Solomon. Ciò che piace dannatamente di Nashville è il mood complessivo, quelle positive vibes, quelle sensazioni che bucano gli speaker dello stereo ed esaltano il sound ascoltato in cuffia.

Estrema felicità creativa e magica condivisione collettiva, una sintonia che funziona da propellente emotivo per Burke, il quale si lascia andare con gioiosa spontaneità, regalandoci performance vocali senza tempo.

 

Ogni brano merita una citazione, a partire dalle cinque giocate in doppio con altrettante country ladies quali Dolly Parton, con il più classico dei duetti in “Tomorrow Is Forever”, Gillian Welch per la splendida “Valley of Tears”, inondata di spiritualità autenticamente gospel, Patty Griffin (un manifesto del country soul) con “Up to the Mountain”, la deliziosa Emmylou Harris (“We’re Gonna Hold On”) e la “Regina del Kentucky” Patty Loveless, perfettamente a suo agio in “You’re the Kind of Trouble”.

Lo stesso discorso vale per l’opener “That’s How I Got to Memphis”, un pezzo di Tom T. Hall che hanno cantato un po’ tutti, reiventato da Solomon con la sola chitarra acustica di Miller, o la sorprendente versione in bilico tra hard country e blues di “Ain’t Got You” dal repertorio più intimista di Bruce Springsteen, nella quale si cattura magnificamente l’atmosfera che ispira l’intero album.

Merita inoltre una menzione speciale la sontuosa rilettura di uno standard come “Atta Way to Go”, dal decano Don Williams, un uomo capace di ispirare i nomi più improbabili, da Pete Townshend e Ronnie Lane a Eric Clapton.

 

Il talento strumentale di Brady Blade, Byron House, Al Perkins, Garry Tallent (sì, quello della E Street Band!), Mickey Raphael, David Rawlings, Sam Bush e Phil Madeira affiora mentre scivola via in un attimo una scaletta di ben quattordici tracce, tutte unite dal risuonare dell’incredibile voce potente e impeccabile del predicatore-baritono. Le sue esecuzioni sono sentite, vissute, cariche di pathos, e fanno emergere ogni singola sfumatura lirica come un'estensione dell'anima. Anche brani minori quali “Seems Like You're Gonna Take Me Back”, “Honey Where's the Money Gone”, Millionaire”, “Does My Ring Burn Your Finger” e “Vicious Circle” trovano il loro posto in un’opera coesa ove la tradizione viene interpretata senza sfarzo.

Il set termina magnificamente con “’Til I Get It Right” di Larry Henley e Red Lane, hit portata al successo dalla meravigliosa Tammy Winette, ove il canto di Burke risulta tormentato e struggente come quello di Johnny Cash, commuovendo fin dalla prima nota.

In conclusione, Nashville sintetizza il concetto di classicità e modernità nel genere country soul, ed è un disco in cui l’autore di “Everybody Needs Somebody” offre tutto se stesso, rimettendosi in gioco come spesso ha fatto nella sua lunga carriera, sempre in bilico tra il sacro e il profano, tra improvvisi bagliori e grandi ombre, tuttavia sempre pronto a dare la scossa e a far vedere la luce.