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REVIEWSLE RECENSIONI
05/01/2023
Ryan Adams
Nebraska
L’approccio alle canzoni è fedele ma anche profondamente personale: più strumenti, più overdubs, con una dinamica spesso molto diversa dalle originali. Non un’uscita imprescindibile, ma una bella occasione per ascoltare un Ryan Adams sincero e senza filtri, che si cimenta con un disco che ha segnato la sua giovinezza e lo ha spinto a diventare un cantautore.

Negli ultimi tempi la già proverbiale prolificità di Ryan Adams è aumentata in maniera inversamente proporzionale al grado di ostracismo mediatico al quale sta venendo sottoposto da qualche anno a questa parte. In effetti, nonostante l’archiviazione delle accuse di molestie, stalking, abusi e quant’altro, che più donne gli hanno rivolto (l’ex moglie Mandy Moore e la collega Phoebe Bridgers tra i nomi più noti), la sua figura risulta tutt’altro che riabilitata.

Mi sono già espresso su questo argomento e non smetterò mai di dire quel che penso: trovo questo atteggiamento sinceramente vergognoso. Certo non sarà un santo, certo ci dev’essere qualcosa di vero, quando diverse delle donne della tua vita raccontano di te le peggio cose; da un punto di vista penale, però, non è colpevole di nulla, trattarlo come il mostro da continuare a sbattere in prima pagina, ignorare completamente la sua musica, rifiutarsi categoricamente di suonare assieme a lui, non può avere a che fare con la difesa di una sbandierata moralità, quanto con quel clima di wokeness e caccia alle streghe che sempre di più sembra caratterizzare questo ultimo scampolo di post modernità.

Ad ogni modo l’artista del North Carolina non sembra darsi per vinto: accettato il fatto compiuto di dover andare in tour da solo (è stato appena annunciato un corposo giro di concerti europei, ovviamente niente Italia) e nonostante un uso eccessivamente compulsivo del suo profilo Instagram, sul fronte discografico ha mantenuto intatta la sua disciplina lavorativa.

 

Un po’ troppo, in effetti. Dopo aver pubblicato due dischi nel 2021 (Wednesdays e Big Colors, il secondo che era stato però più volte rimandato a causa delle vicende giudiziarie di cui sopra), il 2022 lo ha visto in azione addirittura con quattro uscite di materiale inedito: nell’ordine sono arrivati Chris, Romeo and Juliet, FM e Devolver, per una durata totale superiore alle tre ore. Livello di produzione piuttosto artigianale, ispirazione discontinua, con composizioni pregevoli affiancate da altre decisamente nella norma o addirittura trascurabili; l’impressione è che si sarebbe potuto condensare il tutto in un unico disco da una sessantina di minuti, e avremmo forse anche potuto gridare al capolavoro.

Neanche il tempo sufficiente ad elaborare tutta questa roba (di cui, beninteso, praticamente nessuno ha parlato, almeno tra i principali addetti ai lavori) ed eccoci alle prese con l’ennesima pubblicazione. Questa volta, se non altro, non si tratta di un nuovo album, bensì della sua personale versione di Nebraska, il disco che esattamente quarant’anni fa consacrò Bruce Springsteen nell’Olimpo dei Folksinger, oltre che in quello dei rocker nel quale era stato accolto da tempo.

Quella di coverizzare un disco intero dall’inizio alla fine era stato uno sfizio che il nostro si era già tolto nel 2016, quando smontò e rimontò, con grande abilità e notevole senso estetico, il multiplatinato 1989 di Taylor Swift. In quel caso si era trattato di un vero e proprio rework, tanto che quelle canzoni rivisitate sembravano davvero uscite dalla sua penna personale.

 

A questo giro le cose sono un po’ diverse ed è anche comprensibile, visto che non si tratta del disco di una giovane icona del Pop che ha iniziato la propria carriera quando Adams era già famoso, bensì di uno dei dischi più importanti della storia del rock (o del folk, a seconda di come la si voglia mettere) che Ryan Adams stesso ha dichiarato essere stato una fonte d’ispirazione importantissima nell’insegnargli a scrivere canzoni. Pochi esperimenti dunque, siamo piuttosto dalle parti dell’omaggio doveroso, anche se non c’è stata nessuna pretesa di esattezza filologica nella resa.

L’approccio alle canzoni è fedele ma anche profondamente personale: in nessun punto cerca di imitare la voce di Springsteen o di ricalcarne gli arrangiamenti. Piuttosto, parte da sé stesso, dal mood do it to yourself con cui ha assemblato gli ultimi lavori, trattando le dieci canzoni di Nebraska come se fossero altrettanti brani di Chris. La batteria elettronica e il giro di chitarra inedito che apre la title track ne forniscono un esempio lampante: la confessione cupa e apocalittica dell’originale sparisce, per lasciare posto ad una ballata Roots triste ma anche a tratti sorprendentemente aperta. Stessa cosa per “Atlantic City”, rifatta identica nella melodia ma totalmente sballata nelle dinamiche, chitarra acustica come unica protagonista, niente armonica e via dritto dall’inizio alla fine, raccontando quella storia di volontario precipitare nell’abisso senza troppa pesantezza, trattandola come un fatto successo a qualcun altro.

In generale ci sono più strumenti, più overdubs, anche se non ha mai il coraggio di lasciarsi andare ad una interpretazione full band di qualcuno di questi episodi. Va da sé comunque che “State Trooper” e “Johnny 99” ricevono un trattamento piuttosto robusto, meno rock and roll quest’ultima, più diretta e lineare la prima, ambedue comunque sepolte da diversi strati di chitarra distorta.

Molto bella “Used Cars”, al piano elettrico e piuttosto vicina allo spirito dell’originale, mentre gli unici due stravolgimenti vengono fatti, guarda caso, sulle uniche tracce che lo stesso Springsteen si è più divertito a rileggere in vari modi dal vivo nel corso degli anni: “Open All Night” perde totalmente il suo piglio scatenato per trasformarsi in una ballata pianistica tremendamente malinconica; non molto diversa “Reason to Believe”, anch’essa rifatta al piano, che nella lentezza del suo incedere riesce nell’intento di far risaltare ancora di più il carattere cinico del testo.

 

Non un’uscita imprescindibile, soprattutto se ancora state cercando di venire a patti coi famosi quattro album del 2022. Tuttavia, ascoltare un Ryan Adams così sincero e senza filtri, che si cimenta con un disco che ha segnato la sua giovinezza e lo ha in qualche modo spinto a diventare un cantautore, è un’esperienza che vale senza dubbio la pena di fare. Con gli stessi pregi e gli stessi difetti dei suoi ultimi lavori in studio, Nebraska è ugualmente un’ulteriore prova del fascino magnetico dell’artista di Jacksonville; che potrà anche essere una brutta persona che ne ha combinate di cotte e di crude, ma che è sempre in grado di fare la differenza quando canta, che siano cose sue o composizioni altrui.