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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
01/07/2022
Richard J Aarden
Nessun tempo, nessun confine, nessuna fretta
“In me, come in moltissime altre persone, convivono degli opposti. Per me la libertà inizia dal conoscersi”. (R. J. Aarden)

Ci sono dischi che non hanno fretta. Sono quelli che amo pensare come piccoli guardiani del tempo, questo maledetto tempo che abbiamo liquefatto nelle ansie di rispettare gli standard. Certi dischi somigliano un po’ alle statue, ai monoliti che veneriamo nei libri e dentro le memorie dei documentari. Restano fermi a vederli nudi così, da lontano. Fermi nel suono che ciondolante mette in circolo pochi arpeggi e voci soffuse. Somigliano agli alberi secolari certi dischi. E come faccio con gli alberi, se li abbraccio, se resto immobile e se resto in silenzio, tutto trema dentro e il mondo inizia a veleggiare di bolina, soffice plano e con non meno violenza perdo la rotta e con essa anche la voglia di tornare alle mie stupide cose. Quelle sì che fanno rumore e si mostrano giganti alla luce delle televisioni. Agli alberi non importa cosa danno in televisione. Accade tutto questo e senza alcun tipo di fretta.

Richard J. Aarden non si sa bene se sia italiano o olandese e questo importa poco, quanto poco importa sapere se la sua sia una casa di legno o un appartamento in cemento. Quest’opera nuova, eponima, somiglia alla foto di copertina: nuda, priva di riferimenti, sfocata, senza contorni. Quando non c’è il tempo, non importa definire le cose. I contorni valgono mezzo soldo di cacio e ogni figura diviene significante di mille altre versioni. Anche la verità è questione di tempo. Questo disco l’ho abbracciato un po’ come faccio con gli alberi che trovo nei boschi. Un poco mi è dispiaciuto leggere come tanto ha svolto principalmente un compito estetico. Un poco mi è dispiaciuto sentirlo virare dentro confezioni più “pop” ma solo in piccolissimi istanti. Un poco tanto mi è dispiaciuto non poterlo avere tra le mani, figlio del dannato mondo digitale che tutto mastica e sputa, ma sono state gocce dentro un mare enorme che ho scoperto per caso. Sto ancora nuotandoci dentro. Faccio il morto a favore di onde. Ascolto. Senza alcun tipo di fretta.

Richard J Aarden è un disco nordico, ha i ghiacci tra i capelli e dentro le tasche; è un suono corale che un poco rimanda alle vellutate poesie di William Fitzsimmons e un poco si accosta timidamente alle derive industriali di Bon Iver. Tutte anime che ai boschi devono molto, e anche questo non è un caso.

Quando cammini nei boschi e sei rapito nel cercare le tracce degli orsi, quando ti distraggono i rami e le foglie che si frantumano sotto gli scarponi o quando magari chiacchieri con i compagni di viaggio di cose che al bosco e alla montagna non interessano affatto, un po’ è come se stessi perdendo il bosco che vive attorno, stai di nuovo scappando per consumare il tragitto e conquistare la meta. Ma se un poco ti fermi, quel mare di alberi, quei tronchi, quello scenario, non ha tempo, non si muove, non ha fretta e non ha rumore. Eppure se ti fermi, se un tronco l’abbracci, il mondo intero impazzisce e tu impazzisci con lui.

Richard J. Aarden è un disco che ho abbracciato. E vi invito a fare lo stesso, senza alcun tipo di fretta.

 

 

Partiamo dalla voce, Richard. Partiamo dalle coralità della voce. Alle coralità io faccio sempre corrispondere un sentire rituale, qualcosa di propiziatorio che significa anche qualcosa che è accanto all’uomo e alle sue tradizioni. Non so quanto sia vero tutto questo o quanto sia soltanto una mera soluzione estetica, dimmi la tua.

È una bellissima interpretazione e mi piacerebbe dirti che è stato tutto inteso proprio in quel senso.

In questo caso però la realtà è molto più banale e la scelta finale è stata fatta dall’orecchio. L’unico brano dove la coralità è stata prevista sin da subito è “Somewhere I Feel Free”, in quanto la melodia nasce proprio con quell’intento.

 

Prima ancora di saperne il motivo, con questo carillon sintetico che introduce il disco, nella prima traccia, ho pensato al tempo, questo tempo primigenio, di quando eravamo bambini e che oggi dialoga col futuro delle nuove tecnologie. In fondo questo brano non ha tempo. In fondo tutto il disco sembra non avere tempo. E tu che tempo hai dato alla tua musica? Per te in che modo il tempo entra dentro la scrittura?

Sono contento che ascoltando il disco la percezione sia quella che non abbia tempo. Per arrivare a questo album ne è servito tanto: il tempo di sbagliare strada, di esplorare e di ricominciare. Poi d'improvviso si è come sbloccato un tassello e i pezzi sono stati tutti fatti in qualche settimana. A livello concettuale, il tempo è sempre molto presente nella mia scrittura, soprattutto nella sua sfumatura più soggettiva.

 

Il ghiaccio desertico che trovo quasi ovunque, la sospensione di queste giornate piovigginose invernali di una cittadina di provincia, magari islandese, questo disco sembra non voler neanche una geografia tutta sua. Nomade come la testa che ha ispirato l’eponima canzone. E tu che posto nel mondo dai a questo disco e a queste canzoni?

Non ha geografia in quanto non saprei geolocalizzare le canzoni in maniera specifica da qualche parte. Ogni brano ha richiami di luoghi ed esperienze vissute. Per collegarmi alla domanda precedente hanno sicuramente tutte un posto in una linea temporale.

 

Libertà. Altra parola importante per tutto l’ascolto. Essere nomadi, non avere tempo, in un qualche luogo sentirsi liberi. Per te cosa significa questa parola? Cosa significa essere o sentirsi liberi?

In me, come in moltissime altre persone, convivono degli opposti. Per me la libertà inizia dal conoscersi e, per quanto possa sembrare un controsenso, avere controllo su tutte le nostre sfaccettature.

 

Ho l’impressione che quando entra una sezione di drumming, quasi ovunque nel disco, sia foriera di rivoluzioni, di una dinamica che anticipa una sorta di “tempesta”, qualcosa che rompe l’equilibrio delle parti. Un temporale serve sempre alla ricostruzione della quiete. Sbaglio forse?

Sono un grande amante dei climax e nonostante la pacatezza apparente dei miei brani li trovo tutti molto violenti. La batteria è uno strumento incredibile per sottolineare e trasmettere le dinamiche emotive di un brano.

 

Parliamo di Luca Stignani e Peppe Fortugno, fratelli di questo suono e compagni di questo disco. Cosa devi a loro e quanto 6 mani hanno realizzato quel che tu e il tuo sentire avevano pensato? Quanto è stato lasciato al caso, all’improvvisazione, e infine quanto ha significato per te una nuova scoperta del suono che senza di loro non avresti mai intercettato?

L’idea, il cuore, le sonorità e lo sviluppo del disco erano già tutti ben chiari e definiti prima della finalizzazione a 6 mani con Luca e Peppe. Ho passato i file registrati nel mio studio ai ragazzi e abbiamo rimesso mano per prima cosa alle ritmiche, con Luca che ha registrato le batterie di tutti i pezzi; è incredibile come una batteria suonata a dovere dia tutta un’altra vita ad un brano rispetto ai VST. La sezione ritmica di “Somewhere I Feel Free” è quella che ci ha fatto sudare un po’ di più e quindi quella che alla fine dà più soddisfazione. Abbiamo riregistrato le voci di alcuni brani, sistemato alcuni dettagli e infine Peppe ha fatto un lavoro davvero meraviglioso a livello di mix.

 

"Somewhere I Feel Free pt. II”: penso che questo piccolo ponte strumentale sia la coda ma anche l’inizio di tutto il viaggio. Il vero senso o la vera ragione. Un suono circolare che se lo lasci andare resta comunque lì, cadenzato, presente all’orizzonte. Puoi allontanarti dalle cose ma in fondo la vita è qualcosa che torna, sono cose circolari, che oscillano; resta poi un piccolo rumore di fondo, una ragione umana che è semplice e resta quella per tutte le cose. E in fondo, momenti di tempesta a parte, tutto questo disco è così. A te la palla.

La Parte I e Parte II di quel brano sono due facce di una stessa medaglia. Inizialmente era molto diversa e molto più lunga ma il concetto rimane lo stesso, l’accorciamento e la rivisitazione rientra in uno di quei dettagli ragionati insieme a Luca e Peppe. Corrisponde sia all’outro della parte I che all’intro della seconda metà del disco.

 

Poi troviamo due momenti “strani” per la tua voce. “Voicemail” ma anche l’ultima “May You Be”. Didascalia di una narrazione a parte, perché hai sentito il bisogno di alterare la tua voce quasi a non renderla riconoscibile?

Non c’è un vero razionale al riguardo, alla fine è sempre l’orecchio a comandare e nel contesto erano le soluzioni migliori anche per raccontare meglio il contenuto del brano. Su “May You Be” è nato ancora più casualmente e ho applicato un processo che avevo già testato lavorando alla musica di un cortometraggio. Dopo aver registrato tutto il pezzo mi son reso conto che per la mia voce poteva funzionare meglio in un’altra tonalità, ho semplicemente applicato un effetto al master per suonarci sopra scoprendo invece che così processata compariva un colore che dava ancora più efficacia al tutto.

 

Che poi tutto il disco sembra coperto di una patina che nasconde un poco i contorni delle cose. Un po’ come lo sfocato della copertina. Insomma: ha davvero poca importanza capire la faccia delle cose? L’identità, la luce, la forma finale?

Il disco e in generale tutta la mia musica sono un po’ la fotografia di quello che ho in testa e tendenzialmente la memoria non tiene tutti i dettagli ma soltanto l’essenza delle cose, che per me è la cosa importante da sapere, tutto il resto è solo esercizio di stile.

 

Chiudo, promesso. La tua presskit parla in punta di piedi di concept album. Eppure in qualche modo dando il tuo nome al disco ho come l’impressione che l’unica fotografia possibile sia la tua stessa immagine, la tua vita, il tuo modo di stare al mondo. La tua musica nasce e arriva qui dopo mille trasformazioni. E penso che questo disco stia dimostrando un volo che dolcemente plana verso un porto sicuro. Ho come l’impressione che Richard J. Aarden sia un equilibrio più che l’ennesima trasformazione. Anche nei momenti di transizione o di deriva, questo disco resta sempre dentro un seminato che molto significa "quiete dopo la tempesta”. Forse questo ha senso se penso a quali libri citi per le tue ispirazioni. Ma ovviamente questa è la mia chiave di lettura. Dimmi la tua.

La tua impressione è corretta e questo disco è sicuramente un punto di equilibrio. Faccio quello che mi viene senza troppi costrutti comunque, a livello di sound credo di essere arrivato al bilanciamento perfetto delle mie identità musicali. Non penso però che l’equilibrio sia qualcosa di così duraturo o qualcosa su cui far troppo affidamento, prima di arrivare al porto sicuro sono sicuro, anzi, spero ci saranno ancora tante torsioni, turbolenze e scoperte. Parlo di concept album in punta di piedi perché questo disco racconta in qualche modo una storia, con un incipt e un finale aperto che ci può portare alla prossima stagione.