Cover band? Per certi versi assolutamente sì, nonostante la presenza di un membro originale. Eppure, non tutte le cover band sono uguali e a volte vale la pena andarle a sentire. I Pink Floyd del pre Dark Side of the Moon sono stati una band per certi versi enigmatica: dimensione avanguardistica ancora parecchio sviluppata, lontani da soluzioni commerciali e di conseguenza dal successo di massa, erano un fenomeno che, si fossero sciolti prima di creare quel famoso disco, sarebbero rimasti un affare per pochi appassionati (e forse ci saremmo risparmiati anche un sacco di fracassamenti di palle da parte dei loro fan, anche se evidentemente la quantità di bella musica che ci hanno lasciato è lì a dire che ne valeva la pena).
E quindi ben venga che in un bel giorno del 2018 Nick Mason, che non suonava più da parecchio tempo (aveva eseguito “Wish You Were Here” nel 2012, alla cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Londra, ma era stata una cosa estemporanea) si sia reincontrato con Guy Pratt (che suonava il basso nei Pink Floyd del post Roger Waters e che, tra le altre cose, ha sposato la figlia di Richard Wright) ed insieme a Gary Kemp, ex chitarrista degli Spandau Ballet, all’altro chitarrista Lee Harris (The Blockheads) e al tastierista e produttore Dom Beken, abbia deciso di tornare a divertisti a suonare dal vivo.
Qui, secondo me, la nostalgia c’entra fino ad un certo punto: l’interesse principale dietro a questo progetto è soprattutto il fatto che, quando suonavano questi brani, i mezzi tecnici a disposizione erano pochi, il gruppo non era molto famoso all’estero, ragion per cui testimonianze, anche postume, delle esecuzioni live di quel materiale ce ne sono in giro pochissime. Essendo musica ormai già storicizzata, poterne godere in versioni filologicamente fedeli ma anche moderne nell’approccio, mi sembra possa solo fare bene.
Con i suoi Saurceful of Secrets Nick Mason era già passato da noi prima del Covid (se non sbaglio agli Arcimboldi di Milano) ed era poi tornato nell’ambito del Lucca Summer Fest, ma io personalmente non ero mai riuscito a vederlo.
Quello a cui abbiamo assistito, nella sempre magnifica cornice dell’Anfiteatro del Vittoriale (oltretutto questa sera si trattava dell’ultimo appuntamento della rassegna Tener-a-mente) è stato da un certo punto di vista prevedibile, visto che due anni fa è stato pubblicato lo splendido Live At the Rondhouse, scaletta leggermente diversa ma testimonianza fedele dello spettacolo che i cinque stanno ancora portando in giro.
Si comincia con “One of These Days”, uno dei primi successi della prima incarnazione dei Pink Floyd, subito seguita dal manifesto psichedelico “Arnold Layne” e dall’altrettanto iconica “Fearless”, con la celebre “You’ll Never Walk Alone”, inno dei tifosi del Liverpool, aggiunta in base anche a questa versione.
Resa sonora come sempre magnifica, i nostri sono accompagnati da alcuni visual proiettati su una sorta di muro allestito sullo sfondo: oltre a immagini di repertorio (immancabile il volto di Syd Barrett) non mancano animazioni legate al loro universo Sixties, che vanno a sposarsi con un tema decorativo ispirato alle opere di Hokusai.
Dal vivo sono precisi e puliti come mi aspettavo, il suono è ovviamente rinfrescato, potente e senza nessuna velleità di restaurazione integralista, ma le versioni dei brani proposti sono il più possibile vicino agli originali. I momenti più belli sono quelli dove il gruppo si lancia nei trip psichedelici che hanno reso famosi i Pink Floyd: non hanno scelto cose troppo sperimentali, alla fin fine il core del progetto ruota attorno agli episodi più fruibili, però è innegabile che quando parte la strumentale “Obscured by Clouds” oppure “Atom Heart Mother” (di cui purtroppo viene eseguita solo la sezione centrale, in medley con il delicato bozzetto acustico di “If”) si goda parecchio.
Nick è il classico gentleman inglese, posato e affabile: tra un pezzo e l’altro ringrazia sentitamente e non manca di raccontare aneddoti divertenti relativi al primo periodo del gruppo. Dopo aver eseguito “Candy and a Currant Bun”, una chicca solo recentemente tirata fuori dagli archivi, ha spiegato che all’epoca avrebbe dovuto uscire come singolo ma che poi non hanno mai finito di scriverla, l’hanno tenuta nel cassetto per decenni e, con un sorriso compiaciuto, ha aggiunto: “Adesso la suoniamo e siamo gli unici a farlo, neanche Roger e David e nessuna delle cover band dei Pink Floyd che ci sono in giro per il mondo ce l’hanno in repertorio”.
Stessa cosa per “Vegetable Man”, un altro brano non troppo conosciuto, del quale dice, “Abbiamo anticipato il Punk sette anni prima che esplodesse”, o ancora “Arnold Layne”, quando fa ridere tutti confessando che: “Sarebbe dovuto uscire come singolo ma la casa discografica ci ha detto che non era un pezzo adatto ai giovani; adesso non siete più giovani per cui ve la possiamo suonare senza problemi!”.
Prima dell’esecuzione di “Remember a Day”, scritta da Richard Wright, è invece il turno di Guy Pratt di rivolgersi al pubblico, per omaggiare lo scomparso tastierista, “Il quale – aggiunge – era anche il nonno di mio figlio”.
In questa leg lo spettacolo è organizzato in due set da circa un’ora ciascuno, una scelta che ho trovato un po’ dispersiva ma che ha senza dubbio il merito di permettere agli ascoltatori di soffermarsi maggiormente su alcuni singoli episodi.
È il caso ad esempio della magnifica “Set the Controls for the Heart of the Sun”, proposta in una versione particolarmente oscura e magniloquente, dilatata oltre i dieci minuti, che in un certo senso rappresenta l’essenza di quel che sono i Saurceful of Secrets, musicisti straordinari (in particolare la prova di Dom Beken è magnifica, rappresenta il vero collante musicale del gruppo, laddove Gary Kemp e Guy Pratt, che si occupano entrambi delle parti vocali, ne incarnano quella più visibile) totalmente immersi nel materiale che hanno scelto di proporre, e che hanno perfettamente interiorizzato la lezione pinkfloydiana del rumore e della sospensione, unita agli squarci di lancinante bellezza delle melodie.
Prima di questo brano c’è un altro divertente siparietto, con Nick che fa finta di ricevere una chiamata da Roger Waters, che gli chiede dove fosse finito il Gong che avrebbe di lì a poco utilizzato per introdurre la canzone.
La seconda parte si apre con la potente e straniante “Astronomy Domine”, altro grande classico della prima ora, ed è all’insegna del rock, con una serie di composizioni brevi e dirette come “The Nile Song”, “Burning Bridges”, “Childhood’s End” e l’immancabile “Lucifer Sam” che, tra le altre cose, ha dato il nome ai nostri Jennifer Gentle, i più fedeli rappresentanti, per lo meno in Italia, di questo tipo di estetica sonora. È una fase più leggera del concerto, più distesa, e anche il pubblico, che in generale è stato composto e attentissimo si lascia andare maggiormente.
Si tratta del giusto preludio al piatto forte della serata, vale a dire l’esecuzione integrale della monumentale “Echoes”, senza dubbio il punto più alto raggiunto dai Pink Floyd prima di The Dark Side of the Moon. È una delle principali novità di questa leg del tour ed è superfluo dire che la rendono in maniera superlativa. Si tratta anche di una summa di tutto quello che hanno sfoderato nel corso della serata, perché nei suoi venticinque minuti di durata si passa dal lirismo della prima parte, alla Jam chitarra/tastiere della sezione centrale, fino alle suggestioni Ambient della coda, prima che, con la strofa di chiusura, ci si rituffi nel tema principale.
Se vogliamo, è anche un perfetto esempio per delineare l’essenza e lo scopo di un progetto come questo: chi ha mai avuto la possibilità di ascoltare questa suite dalla line up originale? Esistono registrazioni d’epoca all’altezza? Ecco, trattandosi ormai di un brano consegnato alla storia della musica, che ci sia il batterista originale che la esegua dal vivo assieme a musicisti bravissimi, costituisce solo un bene, a mio parere. Certo, molti potranno preferire la versione che David Gilmour ha portato in giro qualche anno fa, ma sono opinioni, il significato storico è esattamente lo stesso.
Non poteva che essere questa la chiusura dello show. Ci sono ovviamente i bis e a questo punto dalle prime file ci si alza in piedi e ci si ammassa sotto al palco. È decisamente suggestivo godere di una prospettiva diversa, osservando da pochissimi metri questi musicisti, scrutare in profondità i loro volti e vedere quanto si stiano divertendo, quanto siano contenti di essere lì (tra l’altro anche per loro, non solo per il Vittoriale, si tratta dell’ultimo concerto). “See Emily Play”, la cullante strumentale “A Saurceful of Secrets” e il divertissement di “Bike” chiudono in bellezza uno show magnifico, un viaggio paradossalmente non nostalgico in un periodo della storia del gruppo che aveva senz’altro bisogno di essere riscoperto.
C’è futuro? Compatibilmente con l’età e lo stato di salute del suo protagonista, credo di sì: il repertorio è ancora molto vasto, ci sono molte altre canzoni che potrebbero essere riprese, potrebbero esserci le condizioni per un altro paio di tour, con relative registrazioni dal vivo.
Personalmente, non vedo l’ora di rivederli.