Nicolò Carnesi è allegro e rilassato, “stranamente di buon umore”, come dice lui stesso durante il primo break che si concede per dialogare col pubblico, subito dopo aver terminato l'esecuzione integrale dell'ultimo disco Ananke. In mezzo alle battute e agli aneddoti esilaranti che racconta, rivelando anche particolari della sua vita affettiva che non ti aspetteresti mai da un musicista che si sta esibendo in pubblico, emerge anche una sacrosanta verità, troppo poco sottolineata e che occorrerebbe senza dubbio più spesso ribadire: i concerti non hanno bisogno di essere caricati di significati ulteriori a quelli che già hanno. Parlare di “rito”, di “celebrazione”, di “messa laica”, attribuire troppa importanza al pubblico, dire cose come: “Siete speciali!”, “Siete unici!” risulta esagerato e anche un po' ridicolo. I concerti sono gli artisti sul palco che suonano e la gente, sotto, che ascolta: “Siamo creatori di miseria – ha aggiunto – che proprio perché facciamo quel che facciamo, proviamo a prendere questa miseria e a trasformarla in qualcosa di bello”.
È un discorso interessante e in qualche modo coraggioso, che contrasta quella narrazione ad uso e consumo dei social network, per cui gli artisti sono divenuti ormai figure a metà tra il content creator e il banditore da fiera, con il pubblico a recitare un ruolo da protagonista che non può e non deve appartenergli. “Chi ascolta l'artista o impara qualcosa da lui oppure, se non gli piace quello che fa, lo critica” aggiunge, evidenziando una verità troppo spesso dimenticata, in questi tempi tristi in cui si va ai concerti più per farsi vedere che per “vedere” in senso stretto.
Del resto Ananke è un disco che prova a sfidare queste false sicurezze: accantonata la veste del cantautore, Carnesi ha realizzato un lavoro da band, in cui le canzoni costituiscono i diversi movimenti di un'unica sinfonia, in cui il concept (i miti greci o, più propriamente, il loro essere specchio della nostra umanità misera ed egocentrica) si dipana attraverso il ricorso alle sonorità avventurose del primo Battiato o dell'onnipresente Battisti “progressivo” di Anima latina.
Un album difficile, che ridefinisce le coordinate di un percorso ma si apre anche a nuove incognite, in ogni caso segno ulteriore di un talento che, mentre scriviamo, non ha ancora ottenuto quel riconoscimento che pure meriterebbe ampiamente.
L'Arci Bellezza, teatro della data milanese di questo tour, è stato allestito con sedie e tavolini, e l'affluenza risulta soddisfacente anche se, per un artista del genere, le persone accorse sono sempre troppo poche.
In apertura c'è Pocodigiorgio, calabrese di origine ma attualmente trapiantato a Bologna, che a settembre ha pubblicato La vita nel cosmo, esordio su lunga distanza.
Si esibisce in un breve set voce e chitarra, nel quale trovano posto anche un paio di brani inediti, “Il lupo della steppa”, ispirato, a quanto sembra, all'omonimo romanzo di Herman Hesse, e “Per la miseria”, una canzone “che parla di sfruttati, quindi di tutti noi”. Il pubblico segue in un silenzio concentrato, cosa che non può che far piacere, dal momento che, scherza, “normalmente mi capita di esibirmi in contesti molto più rumorosi”.
Il set è piacevole, sia per la simpatia comunicativa dell'artista, sia per canzoni decisamente ben scritte, in uno stile cantautorale che sembra avere nella scuola siciliana di Colapesce, Dimartino e dello stesso Carnesi i suoi riferimenti principali. Non lo conoscevo ma l'impressione è stata più che positiva, approfondirò sicuramente.
Nicolò e la sua band salgono sul palco dopo un breve intervallo durante il quale dalle casse è risuonata la musica dei Tangerine Dream, decisamente adatti a introdurci al mood della serata. Preceduti da una voce registrata che, distorta da autotune ed effetti vari, introduce e anticipa con tono ironico e leggero le principali tematiche del nuovo disco, si tuffano immediatamente nella lunga “Prometeo”. Claudio Marciano (tastiere e chitarra), Ugo Cappadonia (basso) ed Emanuele Alosi (batteria) sono, nelle parole del cantante “le persone più importanti di questa serata” e sono in effetti fondamentali per rendere al meglio le strutture atipiche e non convenzionali di queste canzoni, anche se, data la ricca stratificazione sonora, qua e là è inevitabile che vengano impiegate tracce preregistrate.
Ananke viene suonato per intero, in rigoroso ordine di scaletta, ed è un'occasione privilegiata per apprezzarlo compiutamente e per comprenderne meglio il senso. Per la prima volta nella carriera dell'artista palermitano, il focus non è sulla forma canzone ma sugli arrangiamenti e sulle parti strumentali, che non a caso vengono spesso dilatate e reiterate, con il gruppo che interagisce alla grande, puntando soprattutto sul dialogo improvvisato tra chitarre e tastiere, e raggiungendo il climax emozionale nella parte finale, con una “Motel San Pietro” decisamente trasfigurata rispetto alla versione originale, e la strumentale “Stavamo così bene sdraiati dentro l'uragano” che si arricchisce di nuove affascinanti sfaccettature.
Terminata questa prima parte, musicalmente notevolissima, il concerto prosegue su binari su rilassati, con Nicolò che inizia i suoi divertenti monologhi e rimane da solo con la chitarra acustica, per l'esecuzione di un paio brani che, a quanto dice, ama variare ad ogni data: questa sera tocca a “Dinamite”, uno dei singoli del 2023 (“Una canzone molto migliore della storia d'amore che racconta”) e “Numeri”, dal mai dimenticato capolavoro Ho una galassia nell'armadio.
Dopodiché la band ritorna sul palco per un'ultima sezione all'insegna dei vecchi classici, anche se per forza di cose non possono essere numerosi come alcuni avrebbero sperato (del resto lo show è dedicato al nuovo disco e Carnesi è tutto tranne che un artista votato all'auto celebrazione).
In rapida successione arrivano la divertente “Levati”, la sempre meravigliosa “Il colpo” (uno dei brani per che tra i primi ne ha certificato il talento), la più recente “Virtuale” (un altro dei singoli usciti nel periodo di pausa forzata del Covid), “La rotazione” e poi, immancabili, “Ho una galassia nell'armadio” (per chi scrive, una di quelle canzoni che possono da sole definire il cantautorato italiano dell'ultimo quindicennio) e il manifesto “Mi sono perso a Zanzibar”, con il pubblico ormai in piedi e accalcato sotto al palco, ed una coda rumorosa che non fa che accentuarne la bellezza.
Gran bel concerto, ulteriore certificazione di eccellenza da parte di un artista che, lo ripetiamo, meriterebbe senza dubbio un miglior riconoscimento.
Nel frattempo siete ancora in tempo per recuperare Ananke ed inserirlo nelle vostre classifiche di fine anno.

