Negli scorsi mesi abbiamo parlato della Trilogia dei colori di Krzysztof Kieslowski, un progetto in tre atti che trovava la sua fonte d'ispirazione nel tricolore francese, dal quale i tre film mutuavano in maniera diretta i titoli (Film blu, Film bianco, Film rosso), ma anche nel motto fondante della Repubblica dei cugini d'oltralpe: Liberté, Égalité, Fraternité. Se il riferimento ai colori del tricolore è molto marcato nei film di Kieslowski tanto da dare il titolo alle tre opere, il legame con la libertà, la fratellanza e l'uguaglianza è decisamente più sottile, un'ispirazione intuibile ma mai troppo invadente nei film della trilogia.
Con questo Non uccidere, quinto episodio del progetto nato per la televisione polacca che va sotto il nome di Decalogo, il riferimento al comandamento della religione cristiana è invece diretto e lampante, cosa non comune a tutti i dieci capitoli della serie, uno per ogni comandamento.
Composto da dieci mediometraggi il Decalogo ha visto l'ampliarsi di due dei suoi episodi (questo e Decalogo 6) al fine di provare la distribuzione cinematografica, mossa resasi necessaria anche per fini economici, per raggranellare i soldi degli spettatori paganti che sarebbero andati a coprire le spese dell'intero progetto televisivo. Così, dopo un ampliamento di contenuti e di minutaggio, Decalogo 5 arriva in sala rivisto e corretto con il titolo di Breve film sull'uccidere.
In una Varsavia plumbea e deprimente, sporca e impoverita, si incrociano le vite e i destini di tre personaggi: il primo è un taxista (Jan Tesarz) di cui non conosciamo il nome, un uomo scostante, non troppo ben disposto verso i suoi stessi clienti, impegnato a lavare la sua auto e a girare per la capitale senza dare soddisfazione a chi avrebbe bisogno dei suoi servigi. Il secondo è un ragazzo giovane, capelli chiari, faccia pulita; il suo nome è Jacek (Miroslaw Baka) ed è un delinquente mosso in maniera inspiegabile da istinti malvagi: tira sassi da un cavalcavia sulle auto sottostanti, di punto in bianco decide di uccidere. Il terzo protagonista, luce positiva del film, e il giovane avvocato idealista Piotr Balicki (Krzysztof Globisz), un uomo che non sa spiegare perché voglia esercitare la professione di avvocato, Piotr è solo convinto che allo stato attuale delle cose le pene non siano giuste, che la pena di morte non sia mai la soluzione, che la punizione esemplare non sia mai di esempio e che invece sia necessario percorrere la via della pena giusta per tutti, senza discrimine, senza differenze. Quando Janek si troverà a dover affrontare la giustizia di Stato sarà proprio Piotr l'unico a provare un interesse vero e sincero per la sua sorte, per la sua paura, per la trasformazione di un giovane da carnefice a vittima.
Negli anni '80 in Polonia venne introdotta la legge marziale dal Partito Comunista al fine di neutralizzare ogni forma di contrapposizione politica, nello specifico in quegli anni identificabile con il movimento di Solidarnosc del quale i meno giovani sicuramente ricorderanno il leader Lech Walesa. Di pari passo andavano le esecuzioni capitali, cuore pulsante della riflessione di Kieslowski per questo Non uccidere.
È forse il tema più alto che l'uomo possa proporre nella riflessione su sé stesso, la liceità o la barbarie di decidere, col benestare di Stato e della legge, se e quando e come porre fine alla vita di un altro essere umano. Nel far questo il regista polacco usa qui un approccio molto diretto, contribuendo con la sua opera (forse) a far cessare la barbarie (casualmente le esecuzioni si chiudono proprio in contemporanea all'uscita di Decalogo 5), cosa che non gli era riuscita nemmeno con un documentario a tema negli anni precedenti.
Kieslowski mette in scena una Polonia straniante, aiutato dalla fotografia quasi innaturale di Slawomir Idziak, in un paesaggio fosco che non lascia intravedere luce si muovono almeno due personaggi sgradevoli che il regista non giustifica, in riferimento soprattutto all'assassino, ma del quale fa comunque intravedere lampi d'umanità, cause del loro agire, moti d'affetto e comprensione. In contrapposizione una scelta di Stato irrevocabile, che mai potrà essere riparata, mai potrà avere redenzione.
L'occhio del regista è clinico, i personaggi vivono anche di moti e slanci ma difficilmente lo spettatore li avrà per loro, la regia mostra segni di stile fin dalle prime sequenze con la sporcizia di un mondo laido e triste, con le belle inquadrature sulle superfici riflettenti, con una Varsavia inzaccherata e limacciosa che riproduce la distorsione dell'animo dell'assassino che sul finale subirà un ribaltamento, una pena dantesca di totale paura, terrore e morte. Kieslowski ci pone di fronte alla cruda violenza delle nostre scelte e anche se sembra non gridarlo a gran voce ci dice che è ora di finirla.