Cerca

Banner 1
logo
Banner 2
RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
01/05/2023
Charlie Haden and the Liberation Music Orchestra
Not in Our Name
"Not in Our Name" è un disco forse ancora più attuale oggi rispetto al 2005, suo anno di pubblicazione. Il geniale e istrionico Charlie Haden riunisce per l’occasione la mitica Liberation Music Orchestra, con membri in gran parte nuovi, e insieme a una frizzante e come al solito straordinaria Carla Bley concepisce una raccolta di canzoni che si scontra con la politica guerrafondaia degli Stati Uniti, per non dimenticare le contraddizioni di un Paese paladino dei diritti e della libertà e al tempo stesso oppressore e simbolo di corruzione.

Mettete insieme l’estro di Charlie Haden con l’imprevedibilità di Carla Bley e non troverete mai niente di scontato. Contrabbassista nato a Shenandoah (Iowa), divenuto celebre per la collaborazione con Ornette Coleman e in seguito membro dell’American Quartet” di Keith Jarrett, Haden costituisce nel 1968 la Liberation Music Orchestra nella quale risulta fondamentale l'apporto degli arrangiamenti della pianista e compositrice californiana Bley, storica figura chiave del movimento free jazz. Proprio seguendo le istanze musicali libertarie della bravissima artista di Oakland trasferitasi giovanissima a New York, prende forma, l’anno seguente, il primo album interamente dedicato alla guerra civile spagnola, mentre in contemporanea imperversa quella in Vietnam.

Il jazz è un genere che raramente è stato coniugato esplicitamente alla politica e all’impegno civile, e ciò rende un’esperienza speciale anche uno dei progetti successivi, Not in Our Name, pubblicato tanto tempo dopo, nel 2005, periodo del conflitto bellico in Iraq, che riporta in auge l’appello precedente, come simboleggiato dallo striscione originale della precedente opera, nuovamente immortalato in copertina. Un titolo importante, legato al messaggio dei numerosi pacifisti americani, organizzatisi per contestare l’istinto battagliero del presidente, déjà-vu di quanto accaduto quasi quarant’anni prima. Si tratta di un album che vuole andare contro il pensiero dominante sviluppatosi in quel frangente, e per contrastarlo assembla un'ampia gamma di risposte a livello cantautorale e tradizionale che riflettono la coscienza americana del periodo. Emergono brani che contemporaneamente piangono il passaggio a quella visione unica e resistono con forza a essa.

 

“Vogliamo che il mondo sappia una cosa: la devastazione compiuta da questa amministrazione NON È IN NOME NOSTRO. Non è nel nome di molte persone in questo Paese”.

Le parole scritte nel booklet dell’LP sono chiaramente rivelatrici e l’opener è proprio la title track, un meraviglioso strumentale che racchiude tutta l’urgenza comunicativa e si erge a vetta di un’opera straordinariamente originale, non racchiudibile in un genere, come dimostra l’atipico arpeggio di chitarra iniziale. Pur essendo un lavoro di connotazione jazz, difatti questo album supera i confini di qualsiasi tentativo di catalogazione e diventa una nuova world music, una nuova musica popolare: una musica da celebrare e amare visceralmente, ove i fiati illuminati di Michael Rodriguez, Seneca Black, Curtis Fowlkes, Ahnee Sharon Freeman, Joe Daley, Miguel Zenón, Chris Cheek e Tony Malaby insieme alla sei corde di Steve Cardenas e la batteria di Matt Wilson, si intersecano amabilmente con l’accoppiata basso/piano di Haden/Bley, senza disdegnare gustosi assolo individuali.

 

Charlie è uno dei miei più grandi amici. Siamo anche cresciuti in città non troppo lontane l'una dall'altra, nel Missouri, e conosciamo alcune delle stesse persone. Abbiamo suonato insieme parecchie volte, in molte situazioni diverse e la cosa ha consentito di instaurare un rapporto davvero speciale”. (Pat Metheny)

Non è quindi un caso che la seconda traccia sia quell’insindacabile capolavoro e instant hit conosciuta come "This is not America" del duo Metheny e Bowie: anche in questo caso il brano viene solo suonato, senza cantarlo, basta il titolo a drammatizzare la situazione. “Questa non è l’America”, non è la Nazione che la Liberation Music Orchestra desidera, uno Stato esportatore di democrazia utilizzando le armi. Musicalmente la versione proposta si dimostra intrigante per merito di un delicato intro di piano e chitarra con il successivo arrivo della horn section a tratteggiare strofe e inciso, mentre la ritmica è decisamente reggaeggiante, ma è un reggae lento, intristito, come a ricordare gli eventi spiacevoli che si stanno vivendo. L’orecchio più attento potrà cogliere sul finire del pezzo la sarcastica ripresa di "Battle Hymn of the Republic", inno composto nel 1862 dall’abolizionista Julia Ward Howe, attivista contro la schiavitù e promulgatrice di azioni a favore dei diritti femminili.

 

Uno dei pregi di Not in Our Name, registrato a Roma durante il tour europeo, è la sua fluidità, freschezza, modernità, e, grazie al gusto per la sperimentazione, si snodano otto canzoni innovative e curiosamente arrangiate, pur venendo mantenute le classiche e tradizionali prerogative delle big band. Nell’esplorazione delle stanze di questa complessa architettura, in un perfetto bilanciamento di forme e volumi, la melodia rimane comunque stella polare che non cede a facili derive nichiliste. Il lavoro è un insieme vivace e vario di cover, ad eccezione della già menzionata title track, superba creazione di Haden, un instant classic, e di "Blue Anthem" della Bley, raffinata composizione carica di citazioni in perfetto equilibrio tra new, free e trad jazz. È notevole l'omogeneità con cui le due figure carismatiche del disco fondono la propria estetica con Il tono e il timbro caldi per tutta la durata dei motivi.

Un altro pezzo cardine è sicuramente "America the Beautiful", che contiene una lettura meravigliosa e maestosa, anche se un po' dissonante, della famosa melodia di Samuel Ward, irrompe nel post-bop prima di un notevole “alto sax solo” di Zenón, e poi scivola nell'omonima partitura di Gary McFarland. Il brano (diciassette minuti di pura libidine!) in seguito viaggia verso la gospel church music afro-americana, atterrando su "Lift Every Voice and Sing" di James Weldon Johnson, altro scrittore e attivista per i diritti civili, e termina in un intreccio tra il pezzo iniziale e l'elegiaco "Skies of America", inno visionario del mentore Ornette Coleman, chiudendo infine il cerchio ricollegandosi completamente al tema originale. Un medley emozionante e ricco di colpi di scena, ove la scelta di eseguire questi standard patriottici nasce per contrastare le accuse di essere contro la nazione, spesso ricevute dai pacifisti a stelle e strisce, i quali, invece, riflettono la reale coscienza americana, si sentono rappresentati da quelle canzoni, ma piangono il passaggio a una visione distorta dell’American Dream e resistono con forza a quel punto basso del pensiero.

E addirittura la Liberation Music Orchestra si addentra ancora di più nella tradizione nazionale con una versione bluesy, ispirata alle brass band di New Orleans, di "Amazing Grace", con Haden e Cardenas sugli scudi, prima di cimentarsi nella splendida "Goin’Home", dal Largo from the New Symphony del compositore ceco Antonín Dvo?ák, reinterpretata con le dovute libertà jazzistiche. Il gran finale prevede "Throughout" del camaleontico chitarrista e autore Bill Frisell, famoso anche per aver fatto parte della Million Dollar Hotel Band a fianco degli U2 nella colonna sonora del film omonimo, e l’"Adagio", tratto dall’Adagio for Strings di Samuel Barber, in cui spicca l’arrangiamento sobrio, raffinato e allo stesso tempo di dinamica portata da parte di Carla Bley.

 

Not in Our Name è un disco orgogliosamente americano, evocante la speranza di pace e uguaglianza, le quali, sovente, sono state travalicate dalle forze al potere, e pur essendo stato concepito contro gli ideali repubblicani allora al potere, supera ogni significato politico in favore di una scelta sana e lungimirante di crescita dei diritti dei più deboli, senza dover più citare nel vocabolario del progresso, quello vero, la parola guerra. Per questo risulta, purtroppo, ancor oggi molto attuale, in un mondo dove gli interessi dei pochissimi più ricchi dominano sulle povertà altrui. Ancora una volta è l’Arte, e in tal caso specifico la Musica partorita da menti geniali come Haden e Bley, a ricoprire un ruolo salvifico e psicanalitico, dimostrando di essere l’unico strumento creativo conoscibile per scavare dentro di sé, per affrontare un viaggio interiore verso la scoperta della consapevolezza. Infatti dopo averla acquisita, ci si può impegnare strenuamente, utilizzando la cultura e l’insegnamento, affinché i conflitti possano cessare in favore di un confronto arricchente per entrambe le parti. E chissà che avrebbe ideato Charlie stavolta, se non avesse lasciato questo mondo sempre più in rovina ormai quasi dieci anni fa: la speranza è che la sua lezione non vada dispersa, e certamente un’opera come questa dovrebbe aiutare a non dimenticarlo mai.