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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
04/03/2022
CISCO
Nudi nella semplicità di una vera canzone
“Rimanere se stessi con la propria testa, la propria forza, i propri difetti anche perché saranno proprio quei difetti a divenire una forza che poi ti distingueranno in mezzo al gregge” (S. Bellotti)

Mi è davvero difficile parlare di questo disco. E non per il disco in sé, ma per il tempo assurdo che stiamo vivendo. Un tempo che annienta l’uomo, la sua mente, la sua bellezza. Un tempo dentro cui possiamo solo vergognarci. Che fatica scrivere…

Io però mi devo fermare un poco, mi voglio fermare, e se lo faccio tra le righe di questo doppio vinile, immagino e riconosco l’uomo che è Cisco, l’uomo che in queste canzoni diviene anche un amico quotidiano, che parla una voce quotidiana, di storie che sono anche le mie storie. E poi lui, l’amico, dalla sua piccola grande soffitta di poster, di legno e di memorabilia, si mette a nudo, leva dalla faccia le maschere di un suono che nei dischi spesso è facilmente un prodotto bello per la scena del mercato e polverizza le etichette che ormai tutti siamo abituati a mettergli addosso con troppi automatismi.

Disco di pandemia, che da questa prende più il tempo e la ragione per ripensare alla vita che l’ispirazione diretta che diviene lirica e melodia. E dentro i suoi solchi, si pulisce Cisco, si pulisce di pregiudizi e diventa un grande folksinger. Un doppio LP: inedite scritture nel primo, omaggi e delicatissime cover nel secondo.

 

Il primo LP: “Canzoni dalla soffitta”.

Disco che fa del sociale un punto fermo, e non nel senso politico, come forse qualcuno azzarderebbe, per quelle automatiche etichette di stile. Sociale perché in questo disco tutti siamo chiamati in causa: noi e le nostre personali pandemie del presente, noi che i nostri figli saranno il futuro da educare oggi, noi che dai nostri padri prendiamo la storia, e non solo quella dei libri e delle televisioni. Ed ecco che dentro il disco arriva la storia, in una sottilissima insenatura di ballate che parlano di quotidianità, come una sfacciata trama narrativa che Cisco sempre va a ripescare, regalandosi il lusso di un romanticismo poetico dal peso notevole. La storia per lui è sempre quella minore, quella che fa tanto male alla memoria, quella che, forse per pigrizia o per comodità, ricordiamo sempre con molto ritardo. E nonostante le scritture inedite, questo primo disco si chiude con traduzioni di due grandi brani internazionali, uno a firma di Sprigsteen e uno a firma dei Rolling Stones.

 

Il secondo LP: “Live dalla soffitta”.

Come fosse un vero concerto acustico, lui da solo, con la sua chitarra e la sua armonica a bocca. Cisco riprende dal suo diario di viaggio alcune canzoni di una grande famiglia, dai Modena a Capossela, da Brian Eno alla Bandabardò. C’è la sua vita e la sua storia. C’è tutto, e tutto suona senza maschere, senza etichette e senza sovrastrutture.

 

La storia dicevamo. La poesia, il romanticismo, l’essenzialità, cose a cui alludevo prima… in questo lungo viaggio io mi fermo sulle note di “Per sempre giovani”. Parliamo di Casalecchio di Reno, parliamo di una strage impunita della vita nostra. Di quella storia che ormai non fa più storia a volerne parlare. La ascolto oggi questa canzone, oggi che la terra trema per la pazzia. Ne cambio i contorni di certe parole, le faccio mie e penso che in qualche modo, questo disco, resti nel tempo come qualcosa che nel tempo merita di restare.

 

 ***

 

Riconoscersi. Partirei da qui perché questo progetto, dagli inediti agli omaggi, mi arriva come un continuo cercare altro, vestire altri panni, ma sempre restando se stessi. E sappi che ci sei riuscito bene, anche quando hai cantato in inglese, e non solo dentro suoni “sghembi” alle mie abitudini. Secondo te riconoscersi, farsi riconoscere nonostante la ricerca di altro, è un punto di arrivo, di maturità? In altre parole: conservare la propria identità è un lavoro duro da portare avanti o semplicemente una scelta come un’altra?

Io credo che rimanere se stessi anche quando fai cose altrui è sinonimo di personalità. Evidentemente ho una personalità ben definita, ho un carattere che si identifica anche quando farei ad esempio l’Heavy Metal (genere che adoro ma che non ho mai fatto). La volontà di giocare con le canzoni altrui, sperimentare nuove direzioni, è un modo di imparare a fare cose diverse da quelle che si fanno nel quotidiano, e in qualche modo serve anche a valorizzare il lavoro degli altri, altre contaminazioni, serve ad apprezzare tutto in un modo più profondo. Se poi riesci ad essere riconoscibile nel fare le cose altrui significa che la tua personalità te lo permette, altrimenti stai imitando gli altri, e non è una cosa che voglio fare. Io voglio avventurarmi anche dentro le cose degli altri, ma sempre restando me stesso. Crescere, migliorarsi, significa diventare adulti se vuoi.

 

Credo che sia da “Indiani & Cowboy” che colgo in te una spiccata voglia di esplorare "altro", L’America prima di tutto. Ovviamente è il mio piccolo punto di vista, sicuramente sono ricerche che in altri tempi hai portato avanti, ma forse in questi ultimi due progetti l’intenzione americana mi è arrivata più invasiva e protagonista, sbaglio? E se non è così, posso chiederti cosa sta cambiando nella scrittura e nella direzione della tua forma canzone?

Sicuramente “Indiani & Cowboy” è stato importante per questo nuovo disco. Realizzare un disco in America, vedere come lavorano e come si appiccicano loro al suono, è una cosa che ti rimane dentro, oltre al fatto che era una mia volontà quella di esplorare quel mondo, dentro al quale non ero mai stato. Teniamo conto però che tutti noi siamo comunque in qualche misura figli di quel grande maestro che è Dylan e che da lì discendiamo, e quindi anche partendo dai vecchi dischi dei MCR, comunque la lezione di Dylan, del suo modo di fare e di pensare alle canzoni, è una cosa che abbiamo avuto sempre dentro. Ecco, in questo ultimo periodo si sta amplificando la voglia di scoprire i modi da folksinger americano più che quelli irlandesi, che forse ho approfondito molto e forse in qualche modo abusato in passato. Oggi sono più attratto da altre sonorità. Se poi ci aggiungiamo questa condizione pandemica, le distanze, la solitudine, ha significato anche la necessità di scrivere ed incidere chitarra voce in casa. Tutto questo ha certamente aiutato lo sviluppo e la scelta di questa strada, di come realizzare canzoni che avessero quel modo di raccontare le storie, quel modo di pensare alla forma, quella necessità (molto alla Dylan se vuoi) dove una canzone, bella o brutta che sia, deve stare in piedi nuda com’è, chitarra e voce appunto. Quando una canzone sta in piedi così vuol dire che ha i tutti i crismi per essere una canzone. Quando invece ha bisogno di sovrastrutture musicali, piuttosto che di sovraincisioni magiche, allora forse hai tra le mani qualcosa che non è poi così forte. E comunque per me la parte fondamentale, sempre e comunque, resta il testo, il suo messaggio, la sua parte letteraria, quello che ha da comunicare insomma.

 

La pandemia è sicuramente un qualche fulcro del bisogno e delle intenzioni che muovono questo lungo progetto. Il tempo apocalittico ha regalato a tutti noi il tempo per ripensare, il tempo per ricordare, il tempo per far di conto sulla nostra condizione. Non so se è un mio stupido pregiudizio, ma trovo che queste canzoni corrano svelte in questa direzione. Forse è questa pandemia che ha chiesto loro di conservare dentro il dono del ricordo, della nostalgia, della cura delle piccole cose. Ti piace questa mia chiave di lettura? Oppure sono decisamente fuori pista?

È vero, la pandemia ha influenzato tantissimo questo lavoro e soprattutto il modo con cui è stato concepito e realizzato. La necessità di avere canzoni in un certo stile, proprio perché costretti dalla stessa pandemia a farle in quel modo li. Come contenuti certamente sono andato a toccare temi che hanno coinvolto tutti noi, che abbiamo vissuto sulla nostra pelle, però ho cercato anche di deviare da quel concetto lì e quindi di toccare altri argomenti come i rapporti con i figli, con la propria terra, i rapporti con la società (come nella canzone di Springsteen), ho cercato di raccontare canzoni ispirate a tragedie del passato come in “Per sempre giovani”, cercare di raccontare l’amore, cosa che faccio pochissimo e che cerco sempre di fare in modo universale, se vuoi divertente come in “Vox Dei”. E poi la nostalgia come in “Riportando tutto a casa”. Insomma tutto questo vuole raccontare un mondo che nasceva dentro quella soffitta, nasceva dentro le mie quattro mura, proprio dettate dalla pandemia, ma è un mondo che in qualche modo ha cercato anche di uscire da tutta questa situazione. E poi l’ironia: usare l’ironia soprattutto nelle tematiche più dure per raccontare quello che la pandemia ci ha costretti a vivere è una soluzione che mi gioco spesso.

 

In una recensione di questo disco si sottolinea una cosa che mi trova d’accordo, ma preparati perché assai bizzarra e forse anche molto sciocca. Parliamo di Simone Cristicchi. D’istinto, assai superficialmente quindi, penso a voi due come artisti molto distanti. La strada e il mondo popolare in uno, il teatro e la periferia dei manicomi nell'altro. Certamente, in molte altre chiavi di lettura, siete attori di una scena simile. E ovviamente passami queste come fotografie molto “estetiche”, molto visionarie e sommarie. Ma ecco: un poco mi suona “strano” sentire le vostre voci assieme, trovare Cristicchi in una canzone che invece tanto richiama della tradizione di Cisco. Cosa mi rispondi?

Si, apparentemente è così, può sembrare molto distante dal mio mondo culturale e musicale. Lui fa parte, se vogliamo, più di una élite teatrale, di un mondo intellettuale molto più di me e sicuramente più aristocratico di me. Tutto questo visto assolutamente non nel senso negativo ovviamente, lui ha il suo modo di essere e di fare che trovo molto elegante; e lo trovo anche capace di calarsi dentro cose anche differenti. Differenti ma certamente non troppo distanti: il brano che ho scritto penso avrebbe potuto scriverlo anche lui, magari con modi diversi; però Simone ha trovato la sua chiave di lettura, il suo modo per entrare nel mio suono, nella mia canzone, nel mio disco. Se ci fate caso le due voci non sono così distanti l’una dall’altra. Sono due voci molto simili e secondo me rendono bene l’idea; sono davvero molto contento di averlo coinvolto e sono felice che lui abbia accettato.

 

“Leonardo Nimoy” per me è uno dei pezzi più importanti del disco. Importanti per quel concetto di restare se stessi nella diversità, importanti per il messaggio sociale che mandi alle nuove generazioni; forse stai parlando proprio ai tuoi figli prima di tutto. Fai di testa tua. Che rapporto hai con questo tempo moderno che sottilmente (e non) ci impedisce e ci educa a non fare di testa nostra? Secondo te è possibile resistere all’omologazione? E qui penso che sto chiedendo più al padre di famiglia che all’artista.

Beh direi che si, fai una riflessione giusta. La volontà di parlare alle nuove generazioni, ai nostri figli. È importante sottolineare questo concetto che rivolgo a loro: sbagliate con la vostra testa, commettete i vostri errori. Un messaggio da genitore che penso possa calzare nel ruolo di ogni genitore. Rimanere se stessi, non diventare delle pecore che seguono un gregge. Rimanere se stessi con la propria testa, la propria forza, i propri difetti anche perché saranno proprio quei difetti a divenire una forza che poi ti distingueranno in mezzo al gregge, e questa cosa per me è fondamentale, lo è stata nella mia vita e penso che sia giusto trasmetterla anche ai miei figli.

 

Prendo spunto dal romanzo “L’arte della gioia” di Goliarda Sapienza. Modesta, la protagonista, più volte resta ferma su un concetto: non amo gli eroi. Dunque restiamo sul tema di questa canzone. Che rapporto hai tu con gli eroi, con il mito, con la deferenza che abbiamo verso gli uomini e le donne che anno vinto la partita della vita o quantomeno la stanno vincendo?

Purtroppo non conosco questo libro. È una domanda davvero esistenziale, faccio fatica a risponderti. Io ho diffidato sempre dagli eroi e paradossalmente vengono attratto molto dagli eroi tragicomici. Penso al Batman distrutto da droghe e alcool descritto da Frank Miller, penso agli eroi di The Boys tratta dai fumetti di Garth Ennis, eroi che erano violenti e cattivi; sono attratto da queste figure in cui si intravede la doppia faccia di questi personaggi. La canzone in fondo tratta proprio questo tema: stai attento dalle persone “in costume” perché il costume ce l’ha sia il pagliaccio sia l’eroe, e quindi bisogna tener le orecchie alte.

 

“Lucho”. Mi incuriosisce una cosa. Sarà che sempre ci voglio vedere un motivo o sarà che, a forza di volerci trovare una ragione importante, alla fine mi perdo dentro sciocchezze inutili. Ti chiedo scusa anzitempo nel caso. Nel disco par che la tua voce dica: “L’uomo attraversa lento… campi di colture”. Questo almeno arriva alle mie orecchie. Eppure nel testo è scritto culture. Una lettera che a me suona diversa mi apre un modo di domande perché la connessione è interessante. La cultura si semina, sto delirando oppure il gioco sottile di parole è voluto?

Sei così attento alle sfaccettature che hai colto un gioco che ho voluto creare tra testo e voce narrante. Esatto: c’è proprio questo piccolissimo particolare. Ma sono dettagli davvero microscopici, mi complimento per la “maniacalità" con cui li hai scovati!

 

“Il mio posto”. Mi sarei atteso una citazione dentro la presskit nel disco, eppure non l’ho trovata. Oppure c’è e l’ho perduta io. Qui siamo sfacciatamente a casa di Dylan, con un suo celebre brano che non ha bisogno di presentazioni. Tra l’altro, coccolata dalle tue liriche, diventa una soffice ninna nanna di casa che sto amando tantissimo. E questo gioco estetico, letterario e melodico, è l’ennesimo rimando all’America dei folksinger, alla loro storia in cui era abitudine ripescare vicendevolmente le canzoni per farle proprie, con proprie liriche, con le proprie ragioni. E qui su tutte basti pensare alla storia di “This land is your land”, ma torniamo dentro la tua soffitta: come nasce invece “Il mio posto"?

Beh anche qui hai centrato in pieno il bersaglio. “Il mio posto” nasce esattamente da quella canzone di Dylan - “Don't Think Twice, It's All Right” - dove c’è quel passaggio di accordo che è una roba musicalmente quasi orgasmatica per me, e da lì è nata la canzone che ovviamente assomiglia molto all’originale ma che parla di tutt’altro. Come dici benissimo tu: succede tradizionalmente che certe canzoni passino dall’uno all’altro perché ognuno possa farle proprie e con questo brano è successo esattamente questo. Magari Dylan ha preso quel brano da qualche folksinger prima di lui e così via… adesso diventa parte del mio bagaglio musicale attraverso la canzone “Il mio posto”. Non è citata questa radice perché non è esattamente uguale ma è solo l’ennesimo passaggio, l’ennesima sua storia, l’ennesima sua evoluzione, magari qualcuno la ascolterà da me e la farà sua in un’altra versione, e la storia continua. Questa è la magia della musica, tutto questo fa parte della sua natura, della sua normalità.

 

“Per sempre giovani”. Ha ragione Gianluca Morozzi quando scrive che sarà difficile arrivare alla fine di questa canzone. Impegnativa e “pesante” per il cuore di chiunque. Poetica, opportuna, prova di delicato cantautorato. Mi incuriosisce però il filo che lega assieme tutto: in un lungo viaggio che nel mio viverlo l’ho penso nato proprio come una conseguenza di questa pandemia e delle sue tante rivoluzioni (e tutte le canzoni riesco a leggerle in questa direzione). Cosa invece ti ha spinto ha ripescare una tragedia accaduta nel bolognese nel lontano 1990?

Evidentemente sono riuscito nell’intento di quel che volevo fare. Forse non commuovere, ma quanto meno far entrare tutti nei panni di quei ragazzi fine anni ’80 inizio anni ’90, ragazzi di altre dinamiche sociali, di altre abitudini, ragazzi semplici della vita di tutti i giorni che come tutti i giorni andavano semplicemente a scuola e dalla scuola non sono mai usciti, e chi ne è uscito quel giorno porterà dei segni per tutta la vita. Il motivo vero che mi ha spinto a raccontarla è che questa è una storia davvero troppo dimenticata, troppo poco ricordata. E quindi ho voluto in qualche modo renderle giustizia riportandola nella nostra attualità. Io credo che sia ingiusto lasciare quella storia e quel dolore solo a Casalecchio di Reno. Io penso che debba essere qualcosa di tutti, qualcosa di nazionale, come accade per altre grandi tragedie che dobbiamo ricordare: la strage di Bologna per esempio, quella di Piazza Fontana. Insomma, ci sono tantissime grandi storie che ad oggi restano impunite e questa di Casalecchio di Reno è solo una delle tante. Una strage impunita e non dobbiamo abbandonarla. Abbiamo il compito di ricordarla e come dico sempre, mi sembrava giusto farlo.

 

“Vox Dei”. Sempre mi rifaccio a quella recensione e anche qui devo dirti che mi trova d’accordo. Quest’aura di "mitologia greca" in bocca a Cisco non è una cosa assai automatica da pensare. Certe parole non me le sarei immaginate cantate da te. Eppure ha funzionato tutto benissimo. Di nuovo scusami se pecco di ignoranza o di ingenuità: ma anche questa prova lirica è un “esperimento" che in qualche modo ti sei concesso?

Più che un esperimento è un gioco. Non sono un intellettuale, non ho fatto le scuole alte come si dice da noi. C’è mio figlio che sta studiando il classico e spesso mi tira fuori riferimenti della mitologia greca e romana. Questa canzone, ci tengo a sottolinearla, l’ho scritta assieme ad un mio amico e collaboratore, Daniele Grillo, abbiamo giocato su questo immaginario mitologico per raccontare qualcosa di molto semplice: il valore dell’amore. A distanza di millenni ancora oggi sottolineare quanto è importante l’amore nella nostra vita è assai emblematico.

 

Domanda finale, iper marzulliana. Lasciami mescolare assieme alcuni dei tantissimi messaggi che mi lasci: in questo tempo in cui, come detto, abbiamo dato più spazio ai computer che agli individui, in cui abbiamo messo da parte l’amore e abbiamo sprecato tempo ad osannare troppo facilmente gli eroi, i santi subito, cosa stiamo lasciando ai nostri figli? E soprattutto, dopo tutto questo disco nuovo di Cisco, tu personalmente che cosa hai riportato a casa? Domande allegoriche che però spero ti arrivino nel modo giusto.

Forse troppo marzulliana per dare una risposta. In questo caso neanche io riesco a rispondere. Davvero io penso che l’unica risposta possibile sia tutte le risposte date fino ad ora messe assieme. Perché è il sunto di tutto quello che è il disco.

Grazie Paolo, grazie per questa intervista.