A Knebworth non ho mai rimpianto di non esserci andato perché all’epoca gli Oasis li schifavo bellamente (se eri metallaro non potevano piacerti gli Oasis, gli anni ’90 erano piuttosto polarizzati musicalmente, almeno per come me li ricordo io) ma col tempo, avendo recuperato tutto quello che mi ero perso per snobismo o semplicemente per ignoranza, ho iniziato a convincermi sempre di più che no, non era poi così esagerato annoverare il quartetto di Manchester tra le più grandi band della storia del rock. Sono durati poco, allo zenith della carriera ci sono rimasti per un periodo assurdamente breve e forse anche per questo (o soprattutto per questo) hanno segnato per sempre la storia della musica. Niente di nuovo musicalmente parlando, immagine ordinaria al limite dell’anonimato, una presenza scenica poco appariscente ad accompagnare concerti ridotti all’osso, privi di orpelli o effetti speciali, ma una capacità di scrivere canzoni quasi sovrumana, che è poi il vero e unico motivo della loro grandezza, molto di più dell’aura maledetta e del carisma stradaiolo che caratterizzava i fratelli Gallagher.
Ad un certo punto, nel film, c’è un pezzo dove Noel lo dice chiaramente, che quando scrisse “Live Forever” ne sapeva abbastanza di musica per capire che quella era una canzone pazzesca, abbastanza da cambiargli la vita per sempre. C’è una scena simile in “Supersonic”, il documentario del 2016 che raccontava le origini del gruppo e che terminava proprio con le due serate dell’estate ’96. È quando il chitarrista porta il pezzo in sala prove e chiede continuamente conferma agli altri che sia effettivamente originale, perché è talmente bello che gli pare impossibile che non lo abbia inconsciamente scopiazzato da qualche parte.
Dunque è finita che sono impazzito dietro i primi due album degli Oasis (un po’ anche il terzo ma in misura decisamente minore) e mi pareva impossibile che uno dei gruppi più grandi della storia non avesse ancora fuori un live che ne documentasse adeguatamente il periodo d’oro.
Questo “Knebworth 1996” probabilmente colmerà la lacuna. Dico “probabilmente” perché io il concerto completo non l’ho visto, anche se pare che tra il materiale che uscirà a novembre ci sarà, oltre ad un doppio cd con le canzoni eseguite (le setlist delle due sere sono state assolutamente identiche), anche un dvd con la registrazione integrale dei due show. Manna dal cielo, se davvero fosse così, perché io al cinema, nell’anteprima dedicata alla stampa e che il pubblico italiano potrà vedere nelle sale il 27, il 28 e il 29 settembre, ho visto un’altra cosa.
Lo spazio è stato infatti dato al documentario di Jake Scott, che in poco meno di due ore e attraverso le testimonianze di alcuni fan e dei membri della stessa band, ricostruisce il clima dell’evento e prova a raccontare in estrema sintesi quel che è successo.
Quei 10 e 11 agosto 1996 rappresentarono la consacrazione definitiva di un percorso iniziato un paio di anni prima, non tanto perché la band radunò nella località dell’Hertfordshire (famosa per essere già stata utilizzata da nomi come Led Zeppelin e Queen per i loro raduni di massa) 250mila persone in due serate, polverizzando tutti i biglietti in meno di 24 ore, ma perché di serate, se avessero voluto, avrebbero potuto farne anche sette o otto, tanta era la richiesta.
Un fenomeno unico, probabilmente l’ultimo di queste dimensioni nell’universo della musica popolare. È stata forse una conseguenza dei cambiamenti che i sistemi di aggregazione giovanile e le dinamiche della cultura di massa hanno subito dopo l’avvento di Internet, ma dopo gli Oasis non c’è mai stato nulla di simile; nessuna band o artista è mai riuscita a raccogliere un così vasto numero di persone o a generare una presenza così pervasiva all’interno dell’immaginario popolare, al punto da essere oggetto dell’adorazione quasi religiosa dei fan e dell’attenzione morbosa dei tabloid e dei telegiornali.
In seguito abbiamo avuto tantissimi act importanti e di successo ma probabilmente nessuno è mai stato in grado di impattare a livello culturale, nessuno ha mai più contribuito a plasmare un’epoca e un contesto storico così come hanno fatto loro. All’inizio del documentario qualcuno dice che il 1996 fu un anno bellissimo: ero troppo giovane e certe cose mi sfuggivano ma col senno di poi faccio fatica a credere che fosse vero. Sono piuttosto propenso a ritenere che il mondo fosse alla vigilia dello sfascio ma che, semplicemente, fosse ancora troppo presto per rendersene conto. La Cool Britannia, il Brit Pop, la battaglia tra Blur e Oasis, l’ascesa di Tony Blair: tutti fenomeni che noi in Italia abbiamo vissuto di riflesso ma di cui ci ricordiamo benissimo, furono forse solo un modo molto gradevole di tamponare la ferita.
Ad ogni modo l’intento di queste quasi due ore è puramente celebrativo, piuttosto che nostalgico, asciutto e senza troppi orpelli, ci mostra la consapevolezza e la sana arroganza di una band che sì, era meravigliata dalla rapidità con cui aveva raggiunto il successo, ma si dimostrava al contempo pienamente conscia di meritarselo, senza nessuna falsa modestia dichiarava apertamente di esserselo pienamente guadagnato. Ne sia prova la sequenza finale, quando si vede il chitarrista degli Stone Roses John Squire, che di lì a poco avrebbe lasciato il gruppo, raggiungere i quattro per i bis di “Champagne Supernova” e della beatlesiana “I Am the Walrus”: c’è sì un briciolo di timore reverenziale al pensiero di stare ospitando una leggenda del Brit Pop, iniziatore di quel fenomeno di cui gli stessi Oasis avevano beneficiato; allo stesso tempo tuttavia non si sono fatti troppi problemi a dichiarare che: “Non fu esattamente un passaggio di testimone perché il testimone gliel’avevamo già strappato nel 1994”.
Tutto il documentario è pervaso da questa aurea di grandezza, ogni singolo fotogramma ed ogni dichiarazione da parte dei testimoni oculari è finalizzata ad esprimere un unico giudizio: in quei due giorni si è scritta la storia della musica e tutti ne erano pienamente consapevoli, attori e spettatori.
Si segue un ordine puramente cronologico, dando spazio alla spasmodica ricerca dei biglietti da parte dei fan (certi racconti per chi è nato nell’era dei BOT e di Ticketone appariranno un po’ strani ma l’essenza della questione non era molto diversa da oggi, anche se forse in quegli anni la perseveranza veniva ricompensata più facilmente), raccontando il motivo per cui è stata scelta quella particolare location e poi via via, seguendo principalmente le voci di chi si trovava tra il pubblico (quasi tutti i testimoni, lo scopriremo, hanno avuto la fortuna di sistemarsi tra le prime file ma c’è anche il racconto molto intenso e un po’ commovente di un allora quindicenne che si chiuse in camera per ascoltarlo alla radio e registrare rigorosamente il tutto), in una marcia di avvicinamento che è partita dal viaggio, è proseguita con l’attesa fuori e dentro i cancelli, è sfociata nel turbinio di emozioni di quell’ora e mezza in cui gli headliner hanno messo a ferro e fuoco il palcoscenico.
Parlo di headliner perché, lo apprendiamo nel corso della visione, per tutta la giornata si sono susseguiti gruppi di supporto. Che poi erano “di supporto” per modo di dire perché tra i nomi coinvolti scopriamo gente come Ocean Colour Scene, The Charlatans, Kula Shaker, Manic Street Preachers e Prodigy (di questi ultimi si vede pure qualche immagine e tutti i presenti, Oasis compresi, ci tengono a sottolineare che il loro fu un set pazzesco, che quasi rubò la scena al gruppo principale): in pratica, parecchi dei nomi più validi che la scena britannica potesse offrire in quel determinato momento storico.
L’elemento innovativo è che i due concerti non vengono raccontati insieme, nella loro dimensione complessiva ma sono sviscerati dall’inizio alla fine, uno dopo l’altro, attraverso i ricordi dei narratori, che man mano che si srotola la scaletta tirano fuori aneddoti o riflessioni riguardanti ogni singola canzone che è stata suonata. Per ovviare alle setlist identiche, si è semplicemente scelto di mostrare la metà dei brani durante la prima sera, l’altra metà durante la seconda, in modo tale da coprire l’intero arco narrativo dello spettacolo.
Detta così suona interessante ma, personalmente, l’ho trovato noioso e anche abbastanza inutile. Per carità, c’è il gruppo che suona (anche se il montaggio è confuso e le immagini sono spesso di bassa qualità), l’entusiasmo del pubblico è contagioso e certe scene sono davvero da pelle d’oca, specialmente di questi tempi (centomila persone che saltano all’unisono sulle note di “Hello” o di “Morning Glory” sono una cosa pazzesca da vedere, così come anche il singalong che accompagna ogni singola parola cantata da Liam). Tuttavia, alcuni brani vengono tagliati brutalmente mentre in altri non passa un secondo senza che un qualche voice over si sovrapponga alla musica col risultato di rovinare la magia. Alcune delle cose raccontate sono divertenti, altre addirittura toccanti (la ragazza che, commentando l’esecuzione di “The Masterplan”, dice che di lì a poco suo fratello sarebbe morto e che quello fu l’ultimo giorno davvero felice che passarono insieme, il tutto legato ad un testo incentrato sul potere della giovinezza) ma sarebbe stato meglio confinare la parte di narrazione al prima e al dopo, lasciando che il “durante” fosse raccontato esclusivamente dalla musica. In questo modo l’effetto che si è ottenuto mi è sembrato molto simile a quello che avviene puntualmente in questo tipo di eventi, quando sul più bello hai sempre qualcuno che chiacchiera col vicino ad un millimetro dalle tue orecchie.
Ad un certo punto in effetti qualcuno lo dice: “Eravamo lì per cantare quelle canzoni, non certo per scrivere su Twitter che le stavamo cantando” e per un attimo ti viene da pensare che forse sono stati i telefonini a rovinare la fruizione dei concerti: teoria troppo semplice, la realtà è molto più complessa ma è indubbio che ci fosse qualcosa, a quei tempi, che rendeva più facile godersi davvero le cose mentre accadevano.
Ad ogni modo, se l’idea era quella di pubblicare comunque i video integrali dei due show, non c’era affatto bisogno di far sentire ogni singolo brano con il fastidioso commento dei protagonisti. Non so, probabilmente sono io che sono pignolo ma credo che sarebbe bastato tratteggiare il contesto storico e seguire molto di più la band tra prove e backstage, per mostrare un evento del genere anche nei suoi aspetti meno conosciuti.
Da questo punto di vista, “Supersonic” aveva funzionato molto meglio proprio perché aveva il taglio di un documentario, c’era una narrazione molto più presente ed una dinamicità decisamente maggiore.
Se gli Oasis avranno finalmente il loro testamento live, credo che la cosa interessante sarà comprarsi la registrazione del concerto, in cd o dvd che sia. Questo “Knewborth 1996” può essere un gradevole contenuto bonus ma da qui a spendere soldi per vederlo al cinema direi che ce ne passa.