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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
29/08/2017
Jan Garbarek & The Hilliard Ensemble
Officium
Sta proprio nelle numerose dicotomie presenti nel disco la meraviglia di un'opera che attinge dagli opposti per creare un unicum svincolato da ogni precisione temporale

Quando Manfred Eicher, produttore discografico tedesco, progetta di pubblicare un disco di canti liturgici in latino, con l’idea di renderlo però appetibile alle orecchie dell’ascoltatore moderno, forse non pensava che questa intuizione si sarebbe trasformata in un inaspettato successo commerciale. Perché Officium (ECM,1994), pur essendo una raccolta che per sua stessa natura sembra destinata a vivere relegata nell'ambito elitario e difficilmente accessibile della musica colta, risulterà essere, contro ogni pronostico, il titolo più venduto del catalogo ECM, casa discografica di proprietà di Eicher, specializzata in musica classica e jazz d'avanguardia. L’idea del discografico teutonico è semplice, ma geniale: recuperare una musica sacra e antica, destinata all’oblio, e “modernizzarla” sposandola ai moduli espressivi del jazz. Per raggiungere questo obiettivo, Eicher si inventa di sana pianta un’impossibile collaborazione, almeno sulla carta, fra Jan Garbarek, visionario sassofonista norvegese e sperimentatore inesausto (e trasversale) di musica jazz, classica e folk, e l'Hilliard Ensemble, quartetto vocale britannico in attività fin dai primi anni '70 e già alla corte del grande compositore estone, Arvo Part. Officium, come si diceva, non è certo un'opera di facile assimilazione, dal momento che plasma, attraverso l'improvvisazione del sassofono jazz, una materia oscura e arcaica, quella, cioè, dei canti liturgici in latino, risalenti nello specifico a un'epoca che va dall' XI al XIV secolo D.C. In scaletta, vengono, infatti, recuperati brani di Magister Perotinus, Christobal De Morales, Pierre De La Rue, oltre a canti gregoriani e composizioni anonime, tutta musica che noi, ascoltatori moderni, siamo soliti assimilare alle atmosfere cupe e catacombali del medioevo e a secoli in cui l'arte era sottoposta al giogo del pregiudizio, della superstizione e dell'oscurantismo cristiano. Nonostante l'accuratissimo studio filologico che sta alla base del disco (nitido è il delinearsi del percorso storico intrapreso dalla polifonia vocale nei secoli presi in considerazione), le improvvisazioni di Garbarek (sublimi ricami di pause, silenzi, scale, toni acuti e note lunghissime), liberano la musica sacra dalla pesantezza dei paludamenti gotici e consentono alle note un'ascensione spirituale che avvolge l'ascoltatore in una beatitudine sonora priva dell’inquietudine religiosa. La fascinazione che nasce dall'ascolto non è mai univoca o prevedibile: il sax di Garbarek (tenore e soprano) e le quattro voci dell'Hilliard Ensemble (due tenori, un baritono e un controtenore) si inseguono, si cercano, si incontrano, si amalgamano, stratificandosi e sovrapponendosi, mentre, talvolta, si contrappongono in un gioco di rimandi e immedesimazioni, ora vestendo i panni di una profana sensualità, ora quelli di una sacralità pura e incontaminata. Sta proprio nelle numerose dicotomie presenti nel disco la meraviglia di un'opera che attinge dagli opposti per creare un unicum svincolato da ogni precisione temporale. Tutto in Officium, infatti, all’apparenza confligge: l'approccio laico e storico del musicista moderno, che si cimenta con brani, per converso, radicati, per indole e destinazione, in un passato dominato dalla religione e dalla superstizione; il rigore metrico della dizione latina che convive con la sbrigliata fantasia dell'improvvisazione; e, per finire, l'incontro fra la tradizione orale della polifonia medievale e una realtà, quella della musica jazz, nata dopo che la musica assunse definitiva forma scritta. Le contraddizioni vivono però solo a un livello concettuale, mentre sul piano della resa emotiva l'amalgama, contro ogni logica, è di una perfezione sublime. In ogni brano, infatti, il tappeto evocativo delle voci sorregge il respiro salvifico del sax di Garbarek, talora sinuoso e visionario, a volte, invece, spinto alla ricerca del virtuosismo, senza, tuttavia, mai colmare la misura o abbandonarsi a ingombranti eccessi. Così, l'ascoltatore fluttua a mezz'aria, trasportato in un universo parallelo, ove tutto è mistero, incanto, trascendenza e dolcissima malinconia.