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REVIEWSLE RECENSIONI
07/06/2024
Sivert Høyem
On An Island
Sivert Høyem torna nelle terre aspre in cui è nato e cresciuto per registrare On An Island, un disco segnato dall'inconfondibile timbro vocale e da una romantica malinconia che spezza il cuore.

Quando nel 2022 i norvegesi Madrugada si riaffacciano sulle scene dopo uno iato lunghissimo, durato ben quattordici anni, i fan della band, molti dei quali convinti che quel progetto si fosse estinto per sempre, tirarono un sospiro di sollievo, rimanendo incantati, oltretutto, per lo splendore di quel nuovo Chimes Of Freedom. Evidentemente, quel lasso di tempo trascorso lontano dalla casa madre, dovuto soprattutto alla morte dell’amico e chitarrista Robert Buras, è servito non solo a rielaborare il lutto, ma anche a mettere ordine alle idee e a vedere se fosse ancora possibile fare musica tutti insieme. Nel frattempo, il leader Sivert Høyem ha continuato a pubblicare dischi in solitaria, l’ultimo dei quali, Lioness, risale al 2016.

Otto anni di attesa che, come per il ritorno dei Madrugada, dimostrano quanto, talvolta, prendersi del tempo serva ad affinare la scrittura, a porre attenzione soprattutto alla qualità, scegliendo con cura il meglio per produrre dischi di alto livello.

E’ il caso anche di questo On An Island, uscito a inizio anno, e registrato in presa diretta in una vecchia casa di preghiera chiamata Zoar, a Nyksund, un piccolo villaggio di pescatori situato nella contea di Nordland, terra aspra e pittoresca in cui il cantante è cresciuto. Un luogo ameno e un ambiente semplice e rustico, che rispecchiano perfettamente i contenuti di questo nuovo lavoro, tanto scarno quanto attraversato da palpiti nostalgici, struggente malinconia, e avvolto in un alone soffuso di oscura spiritualità.

Høyem ha portato con sé in sala di registrazione gli amici Christer Knutsen e Børge Fjordheim, per dare vita a una sorta di concept, quanto mai autentico e organico nel suo dipanarsi, che raccontasse il decadimento delle sue terre, il cui fascino sembra essersi dissolto alla luce del progresso e della mano dell’uomo, indifferente di fronte alla bellezza della natura e tradizioni culturali ataviche.

Una musica, quella contenuta in On An Island, che ricorda molto da vicino il blues crepuscolare dei Madrugada, declinato, però, con accenti folk rock e un pizzico di gospel. Un disco, questo, che, pur evocando la casa madre, manca dell’urgenza espressiva della band, per concentrarsi, invece, su una narrazione intima, meditabonda, pervasa di una dolcezza che spesso vira verso sentori agri e dolenti, una scaletta che sembra fatta di niente, e che tuttavia è traboccante di rimpianti, di cose e persone andate per sempre, di un amore arrugginito, che vorrebbe rinascere, ma che non è più corrisposto.

On An Island è, soprattutto, uno sguardo sul presente filtrato dai ricordi del passato, è un luogo famigliare divenuto respingente, del quale, però, socchiudendo gli occhi è ancora possibile cogliere l’antico selvaggio incanto, il variopinto stagliarsi sull’orizzonte delle case dei pescatori, lo sciabordio della risacca, il pungente sentore di salsedine, l’eco del folklore norreno trasportato dalle folate di un vento gelido e gravido di presagi.

E’ ciò che si può cogliere fin dalla title track, la cui chitarra riverberata evoca solitudine e spazi infiniti, e il baritono da crooner di Høyem si dipana come una struggente elegia. Intensa, totalizzante. Un brano scarno, la cui purezza francescana travolge di emozione, come un’inaspettata e definitiva rassegnazione.

"Two Green Feathers" possiede, invece, una struttura più convenzionale e arrangiamenti più solidi, ma non per questo è meno incisiva: la malinconia stritola il cuore, il ritornello (magnifico) lo accarezza, mentre intorno all’ascoltatore si fa densa un’inquietudine noir che sgomenta.  

"When Your True Love Is Gone" vira verso una declinazione più folk e, sorge quasi inevitabile l’accostamento a certe ballate mestissime di Leonard Cohen. Sono davvero pochi i barbagli di luce in un disco in cui sono il crepuscolo e la notte i veri protagonisti. "In the Beginning" è una ballata d’amore disperata (“Tu dai significato alla follia”), in cui la voce di Høyem è quasi trasfigurata, così come in "Aim For The Heart", in cui è ancora l’amore, nella sua accezione più dolorosa, a farla da padrona (“Cause Only Love Will Kill You Twice, It Leaves On Yor Name a Sweet Little Stain, Like A Train In A Station Late At Night, It Passes Like Thunder Though Your Life”), mentre "The Rust" si sviluppa, scarna e sensuale, su un battito trip hop che sorregge il baritono profondo del cantante.

"Keepsake" porta con sè un po’ di leggerezza grazie a una volatile melodia pop da camera, mentre la voce cavernosa di Høyem scava l’anima. Ma è solo fugace intermezzo, prima che "Now You See Me, Now You Don't" riporti le tenebre sulle trame di un blues drammatico, che si carica di tensione in un finale crudo e palpitante. Chiude l’emozionante "Not Enough Light", ennesima ballata crepuscolare che sembrerebbe presa da un album dei Pearl Jam, se non fosse per quel violino che le attribuisce un vago sentore country.

On An Island è un disco formalmente scarno, essenziale e lineare, ma in queste nove superbe canzoni, si nasconde molta più vita di quella che si potrebbe immaginare a un primo ascolto superficiale. Amore e disperazione sono la chiave di lettura di un romanticismo decadente, in cui il cuore è la vittima sacrificale di una musica sospesa al limitare della notte, quel confine sfumato in cui si affastellano ombre, fantasmi, ricordi, e amori, definitivamente perduti. Perfetta colonna sonora di uno straziante soliloquio interiore.