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REVIEWSLE RECENSIONI
24/07/2020
Paul Weller
On Sunset
Un disco che racchiude la cifra stilistica di Weller, dagli echi Style Council all'intimismo rilassato di True Meanings

La lunga carriera di Paul Weller, dai Jam fino a quest’ultimo On Sunset, è sempre stata caratterizzata da una disarmante regolarità, un disco via l’altro, intervallati da pause al massimo di tre anni. Il songwriter di Woking è guidato evidentemente da un’inesausta ispirazione, con cui talvolta ha spostato il baricentro della propria narrazione (il penultimo True Meanings del 2018), rimanendo però fedele a se stesso e mantenendo pressoché invariata la qualità della proposta.

Superata di slancio la boa dei quarant’anni di carriera e giunto al quindicesimo album in studio, Weller continua a di mostrare una classe infinita e una capacità di scrittura sopraffina. In tal senso, On Sunset confeziona elegantemente in dieci canzoni l'essenza del Weller pensiero, con una forbice stilistica che parte dall’avventura eighties con gli Style Council fino ad arrivare alla delicatezza intimista del già citato True Meanings.

E’ un Weller rilassato, ma non appagato, quello cogliamo nelle dieci canzoni dell’album, che maneggia con sapienza da venerato maestro la consueta materia soul pop, con vista sugli anni ’60, scossa, talvolta, da un mai sopito ardore rock e da una propensione naturale per la declinazione psichedelica.

In tal senso, la splendida apertura di Mirror Ball è un sorta di zibaldone dei pensieri musicali che affollano la testa dell’ex Jam: il velluto orchestrale e sixties dell’incipit, il senso della melodia che ti cattura con una sola strofa, la consapevolezza per il soul e per la ritmica che pochi possiedono, la capacità di rendere un brano lineare in qualcosa di più complesso e seducente. Pochi bianchi al mondo, poi, sanno divertire con dei r’n’b così clamorosamente vintage e prevedibili (Baptiste) che però ti acchiappano al volo con l’immediatezza del pop più ruffiano, o, per converso, sanno declinare l’antico verbo funk una visione moderna e spolverata di elettronica (Old Father Tyme).

Numeri da autentico guru, che aprono un disco capace di conquistare anche con la retromania alla Style Council di Village (c’è Mike Talbot all’hammond) e col deragliamento jammistico della favolosa More (che arrangiamenti!), pronta per essere l’abbrivio all’improvvisazione per i futuri concerti, oppure sedurre con i languori dandy della title track, lo sguardo pacificato e sereno verso il sole che tramonta lontano, accarezzandoci il viso con la prima brezza della sera.

Il disco, pur mantenendo integra la propria eleganza formale, cala leggermente nella seconda parte, che risulta meno ispirata, con due episodi piacevoli ma tutto sommato prescindibili (Equanimity e Walkin), con Earth Beat, altro gioiellino alla Style Council, preso in prestito dallo scrigno dei ricordi e lucidato con un po' di elettronica, e con Rockets, ballatona avvolta in una languida e melodrammatica coltre d’archi.

Nella versione deluxe ci sono cinque brani in più (degna di nota I’ll Think Of Something) che però non aggiungono nulla alla sostanza di un disco centrato e splendidamente suonato, che, a dispetto del titolo, testimonia un livello d’ispirazione ben lontano dalle ombre del tramonto.


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