Dopo aver visto la morte in faccia, qualche anno fa, a causa di una grave cirrosi al fegato, Walter Trout, leggendario chitarrista del New Jersey, ha vissuto una sorta di seconda giovinezza, inanellando un filotto di album tutti bellissimi.
Il ritorno alla vita, nel 2015, con Battle Scars, (vincitore di due Blues Music Awards) che rielaborava il dolore ed esorcizzava la paura della morte, Live In Amsterdam, del 2017, che certificava il ritorno sulle scene, confermando uno stato di forma stupefacente per chi solo qualche tempo prima si era trovato a giocare a scacchi la sua partita con la morte, We’re Al l In This Together (2017), una sorta di grande party organizzato da Trout, invitando tutti i migliori chitarristi in circolazione (e non solo), per celebrare il potere salvifico della musica. E poi, ancora, Survivor Blues (2019), figlio di un’idea non originalissima, ma sviluppata con la consueta classe, in cui Trout reinterpretava una serie di cover di grandi del blues, pescando, però, nel sottobosco dei pezzi meno noti.
Ordinary Madness è il nuovo capitolo di una discografia inappuntabile, l’ennesimo disco di rock blues, tutto sangue, sudore e chitarre. Prodotto da Eric Corne e registrato a Los Angeles, presso gli studi privati del grande Robby Krieger (The Doors), l’album ha visto la partecipazione di Michael Leasure (batteria), Johnny Griparic (basso) e Teddy ‘Zig Zag’ Andreadis (tastiere) e ospitate di peso (come Skip Edwards, Drake ‘Munkihaid’ Shining e Anthony Grisham).
Il disco è stato rifinito poco prima del lookdown statunitense e, in qualche modo, nelle atmosfere meno esuberanti e più riflessive, si percepisce l’eco dell’immane tragedia che ha colpito l’umanità. Le canzoni, poi, suonano leggermente diverse dal solito anche a causa di un ulteriore infausta contingenza: Trout si è rotto tre volte il mignolo della mano sinistra, circostanza, questa, che ha reso più travagliata e complicata la registrazione dell’album.
Ciò nonostante, anche in un clima non proprio idilliaco, Trout ha mantenuto salda la barra del timone, sia a livello di scrittura che di esecuzione, e ha rilasciato un disco ispiratissimo, in cui ballate d’ampio respiro si alternano a brani pervasi dalla consueta, inesauribile energia. In scaletta, nessun filler, ma solo splendide canzoni: l’iniziale title track, bluesone cadenzato, che lentamente prende fuoco tra le vampe di un arroventato assolo, Ok Boomer, chiosa stritolata tra le maglie hard di un suono potente e clamorosamente vintage, Heartland, ballatona tutta epos e vento nei capelli, e, per citarne un’altra, Make It Right, virile esibizione di muscoli pompati da una tonante linea di basso.
Qualche pizzico di elettronica (poca roba, non temete), non toglie (e non aggiunge) nulla a un disco dal suono super classico, rilucente come nei giorni migliori, con cui Trout dimostra, per l’ennesima volta, di stare un gradino sopra, come tecnica e classe, a molti chitarristi blues più giovani e più acclamati. Maestro.