Non sapevamo più nulla di Alessandro Donin e del suo progetto Nularse da prima della pandemia. Sospesi era uscito nel 2019 e aveva ottenuto buoni riscontri di pubblico e critica, con la ciliegina sulla torta di un’importante partecipazione di Saturnino al basso, che era rimasto colpito da alcuni dei primi singoli usciti e aveva voluto offrire il suo contributo.
Da allora di cose nuove non ne sono uscite ma è probabile che questo periodo di pausa (forzata o meno non lo sappiamo) sia servito principalmente a raccogliere le idee e ad accumulare vissuti e suggestioni che sono poi inevitabilmente confluiti in questo sophomore.
Il titolo, secondo le parole dello stesso Alessandro, evocherebbe un duplice movimento: quello dell’accogliere ma anche del lasciarsi accogliere. È però in un certo senso inevitabile che Ospiti rifletta anche la particolare relazione che c’è tra chi ha scritto e cantato queste canzoni e chi è intervenuto per suonarle: non sappiamo se anche dal vivo ci sarà la stessa squadra ma è interessante notare come all’interno del disco sia presente un’innegabile dimensione corale. Alberto De Lazzari (piano e Synth), Francesco Inverno (batteria), Andrea Lombardini (basso), Filippo Zonta (percussioni) si muovono su questi pezzi come se fossero una vera band, donando un suono pieno e avvolgente a quello che è essenzialmente un progetto cantautorale.
Nularse è una parola del dialetto veneto che significa “rannuvolarsi”, un monicker in linea con il background del suo autore, che proviene da un piccolo paesino della laguna veneta. Sono nuvole, metaforiche, quelle che dominano il paesaggio sonoro e testuale di queste canzoni, costantemente velate da una malinconia non definibile, o da un intimismo che non è mai totale ripiegamento su se stessi, ma conserva sempre il desiderio di aprirsi agli altri ed accoglierli nella propria vita.
Un disco in perfetto equilibrio tra scrittura cantautorale e minimalismo elettronico, con la tradizione italiana che incontra quella anglosassone di Elliott Smith e dialoga con grandi esponenti contemporanei della composizione come James Blake, Caribou e Four Tet.
Queste sono le influenze che normalmente Alessandro dichiara, ma il risultato finale è molto più lineare e dice di canzoni che semplicemente “esistono”, evocando una bellezza senza tempo fatta di arrangiamenti semplici e mai sovrabbondanti (chitarre acustiche e piano sono preponderanti, qua e là affiorano beat e leggeri tappeti orchestrali), cambiamenti di dinamica sempre in punta di piedi (notevole la fuga affidata al bordone di Synth nel finale di “Forse domani”) e un’urgenza vocale che disegna melodie cristalline ed immediate, nonostante una buona dose di ricercatezza.
Canzoni tutte perfettamente riuscite, con un livello di scrittura che in Italia, abituati come siamo a progetti più “moderni”, rischia sempre di passare sotto traccia. Menzione speciale per “L’ombra”, che chiude la scaletta: voce e chitarra nella prima parte, un crescendo di intensità nella seconda, un testo che evoca suggestioni buzzatiane, in una sorta di tributo a quelle ombre di cui non ci possiamo liberare (“Vuole abitarmi il cuore quell’ombra che sembra conoscermi e non mi lascia mai (…) si nasconde tra le parole che sai ma che non hai mai detto”).
Sei anni di pausa ma ne è valsa decisamente la pena.

