C’era molta curiosità e, a dire il vero, anche qualche perplessità, riguardo a questo nuovo Other Arrangements, presentato dallo stesso Parker Millsap come qualcosa di completamente diverso dai dischi precedenti. Dischi, assai apprezzati dalla critica specializzata, che fin da subito ha considerato il ragazzo di Purcell una sorta di enfant prodige dell’Americana, e dal pubblico di appassionati, che ha premiato l’omonimo album del 2014 e The Very Last Day del 2016, con due prime piazze nelle classifiche statunitensi di genere.
Questo ultimo lavoro, in particolar modo, aveva certificato la maturità compositiva di Parker, capace di miscelare con sapienza il proprio background gospel e blues (appreso frequentando la chiesa del padre, un pastore pentecostale) con la tradizione rurale del Sud e un’attrazione estemporanea ma vibrante verso il rock’n’roll delle origini.
Se nei precedenti lavori prevaleva il suono acustico e una moderna visione di ballata sofferta in bilico fra sonorità folk e blues, relegando la chitarra elettrica a episodi convincenti ma marginali, con Other Arrangements (titolo esplicativo al pari della copertina che ritrae Purcell con una fiammante sei corde rossa di “cochraniana” memoria) la prospettiva si ribalta, ponendo al centro del nuovo corso un numero consistente di decibel e un suono rock che non è più solo sfogo momentaneo.
Non mancano, certo, episodi che rimandano al passato e in cui Parker continua a eccellere, regalandoci alcuni dei momenti migliori in scaletta. Il folk di Good Night, che vibra e si espande sulle note del violino del sempre ottimo Daniel Foulks (una costante del suono di Millsap), le trame blues della spigolosa Tell Me o la famigliarità gospel di Coming On sono un marchio di fabbrica che Millsap gestisce con la consueta bravura e originalità di scrittura.
Other Arrangements, come detto, imbocca, però, anche altre strade, esce dalla consueta penombra e dagli struggimenti dei dischi precedenti, per sfoderare un’irresistibile carisma pop rock, che Millsap innerva di energia e di esuberanza giovanile.
Fine Line, ad esempio, apre il disco con un rockaccio sporco in cui si scoprono citazioni stonesiane, mentre Some People sgomma veloce sull’interplay nervoso delle chitarre (acustica ed elettrica) e Gotta Get To You sembra rubare l’incipit power pop a un pezzo dei Foo Fighters.
Collante di questa composita scaletta (per una durata complessiva di trentacinque minuti) è la voce di Millsap, straordinariamente potente e volitiva, che si sposa perfettamente con le tonalità più blues, e risulta graffiante, quando il ragazzo rockeggia, e languida, invece, quando il passo lento della ballata viene a sfiorarci le corde dell’anima. Come succede nella conclusiva Come Back When You Can’t Stay, struggente chiosa, scritta e cantata con Jillette Johnson, e autentico gioiello di un disco che conferma Parker Millsap, in condominio con Sturgill Simpson, Chris Stapleton e Jason Isbell, una delle punte di diamante del nuovo suono americano.