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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
09/11/2017
Living for the city
Parliamo di NYC
Occorre insomma trattare la città come lei tratta noi, mettersi al suo pari anche se la conclusione mi pare evidente: se non la odii la ami, e allora ci puoi anche litigare e poi fare pace.
di Stefano Galli steg-speakerscorner.blogspot.com

Frank Sinatra ha dedicato, o meglio ha interpretato, anche canzoni che parlano di Losa Angeles e di Chicago, però “New York, New York” è quella che gli sta più attaccata.

Qualcuno scrisse che LA è la città che dice “fuck me” mentre NYC è la città che dice “fuck you”. A Chicago c’è troppo vento e quindi la concorrenza risulta sbaragliata.

Ma andiamo su arie un poco meno conosciute: “Living For The City” di Stevie Wonder chiude con una sarcastica frase parlata: “New York, just like a picture”; “The Message” di Grandmaster Flash & The Furious Five[1] allerta: “New York, New York, big city of dreams / But everything in New York ain’t always what it seems”.

Però Laura Nyro, grande cantautrice nata nel Bronx, scrisse ed intonò: “You look like a city / But you feel like a religion to me” nella canzone che intitola anche un suo album: “New York Tendaberry”.

Se la città fosse stata l’argomento di un convegno, questa strofa sarebbe la relazione di sintesi.

Tutti, anche David Letterman – che quarant’anni fa sarebbe stato dichiarato establishment – si lamentano dello stato in cui versa New Amsterdam.

Invero una via di mezzo dovrebbe esserci fra quegli isolati quasi abbandonati e spettrali che si incontravano a sud di Times Square nel 1975 lungo avenue che non erano parte di Alphabet City perché probabilmente poca era la soluzione di continuità fra numeri romani e lettere latine al tempo, e la tendenziale asetticità propugnata prima per bonificare la zona intorno alla 42nd Street e poi estesa ormai anche alla Broadway, con zone in cemento o asfalto dipinte di verde.

Ciò pur se non si può incolpare l’ex-amministrazione Giuliani (e le sue precedenti campagne moralizzatrici) per decessi illustri come quelli di Joey Ramone o, anche se non in loco, di Johnny Thunders. Certo, il paesaggio si banalizzò sempre più con talune trovate del major Bloomberg, che parrebbero eccessive anche all’assessore al traffico di Lugano.

Che fare?

Come sempre, accettare i cambiamenti, cercare il nuovo e godersi anche quel che resta: il Chelsea Hotel non è più il Chelsea Hotel, ma non l’hanno menata come per il CBGB’s in Europa; forse perché Jobriath e Sid Vicious sono meno eleganti di Patti Smith[2]? Possibilmente anche avendo senso critico: davvero Kat’s ha (aveva?) il miglior pastrami e davvero non è umiliante sottoporsi ai diktat di Peter Luger per un pezzo di carne. Un’avvertenza (anche se non voglio sembrare il sergente del rapporto mattutino di Hill Street Blues): per favore non comprate quegli oggetti che vi vengono venduti nell’incarto turchese se non nel negozio che si trova sulla Fifth Avenue al civico 727 all’angolo con la 57th Street East. Perché là si possono trovare anche cose eleganti e non necessariamente costose, qui invece fa molto bridge and tunnel, cioè cheap, indipendentemente come al solito dal loro prezzo.

Occorre insomma trattare la città come lei tratta noi, mettersi al suo pari anche se la conclusione mi pare evidente: se non la odii la ami, e allora ci puoi anche litigare e poi fare pace.

[1] Unica delle canzoni qui citate contenuta in una raccolta (doppio CD) curata da Charlie Gillett (e facente parte di una serie dedicata ad alcune città USA) che consiglio: The Sound Of The City-New York.

[2] Non ricordo particolari estasi a Palazzo Fortuny di Venezia molti anni fa, 1992, per una mostra fotografica di Mapplethorpe, più che suo amico; mostra dove diversi soggetti erano natiche maschili con talune adornate da manici di frusta inseriti nell’ano.