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REVIEWSLE RECENSIONI
28/06/2018
Dawes
Passwords
I Dawes sembrano aver smarrito l’ispirazione di un tempo, ovviando alla mancanza di canzoni (qui di passabili ce ne sono davvero poche) con arrangiamenti bolsi e melensi

Cosa sia successo ai Dawes è una domanda alla quale è quasi impossibile dare risposta. La band losangelina composta da Taylor Goldsmith alla voce e alla chitarra, suo fratello Griffin alla batteria, Wylie Weber al basso e Alex Casnoff alla chitarra, ha infatti dilapidato in cinque anni il patrimonio di credibilità artistica messo in sicurezza con quel piccolo gioiello datato 2013 e intitolato Stories Don’t End.

Quello era un disco di west coast, inciso fuori tempo massimo e zeppo di citazioni (CSN&Y, Jackson Browne, Eagles, James Taylor), ma caratterizzato da un sound ben riconoscibile e strutturato, e pur muovendosi su un percorso conosciuto, la band evitava accuratamente la main street, preferendo invece un itinerario personalizzato, meno agevole, certo, ma proprio per questo lontano dai più scontati luoghi comuni.

Il successivo All Your Favorite Bands (2015), appena un gradino sotto il predecessore, ribadiva il brillante stato di forma di un gruppo, la cui visione moderna era in grado di nuovo di stupirci attraverso un suono vintage e risaputo, eppure maneggiato con gusto personale e originalità.

Poi, qualcosa si è rotto, e il successivo We’re All Gonna Die (2016) ha segnato un deciso cambio di passo, o meglio una clamorosa involuzione, rispetto a quel disco, che solo un anno prima, aveva strappato numerosi consensi da parte della stampa specializzata. Accantonata per buona parte la tradizione west coast, Goldsmith e soci sfornarono una pasticciatissima scaletta di corbellerie, confusa nelle idee e nelle intenzioni, e che sembrava solo (ma forse neppure) lontana parente di una discografia fino ad allora ineccepibile.

Questo nuovo Passwords ci racconta oggi di una band che sembra aver perso completamente la bussola e che naviga a vista in un mare di mediocrità apparentemente senza approdi. Pur ritornando a rimasticare il genere west coast che ne avevano caratterizzato la prima parte di carriera e sfoderando, quindi, tutto l’armamentario di suoni vintage di californiana memoria, passatismo seventies e citazioni a go go, i Dawes sembrano aver smarrito l’ispirazione di un tempo, ovviando alla mancanza di canzoni (qui di passabili ce ne sono davvero poche) con arrangiamenti bolsi e melensi, necessari evidentemente a sorreggere composizioni scialbe e senza mordente.

Il primo singolo, Living In The Future, sfodera un bel suono di chitarra e un discreto ritornello, ma non supera gli standard di chi con mestiere procede con il pilota automatico. Stay Down è un folk rock sbiadito con retrogusto messicano, i cui echi vorrebbero rimandare agli Eagles, mentre Crack The Case guarda al nume tutelare Jackson Browne, ma risulta verbosa e sdolcinata invece che malinconica, come era probabilmente nelle intenzioni.

Decisamente meglio il mid tempo di Feed The Fire, che rincuora un po’ con una bella melodia e un centrato ritornello che cita addirittura gli America. Un buon brano che però non può nulla contro la successiva My Greatest Invention, indigeribile polpettone alla melassa, reso ancora più letifero da un arrangiamento in cui archi e archetti, tastiere e tastieroni e chitarra pizzicata fanno la parte del leone soffocando ogni presunta velleità di pathos. Una canzone tanto brutta da far passare la voglia di cimentarsi con il resto della scaletta, la quale, tra leziosità e amenità assortite, si chiude con la discreta Time Files Either Way, ballata ancora una volta ispirata da Jackson Browne, che testimonia le virtù, ormai quasi del tutto smarrite, di una band in evidente crisi creativa.