È una sera afosa, l’umidità ti si aggrappa addosso e non lascia respirare neanche i pensieri: il sole è tramontato ma qualche ombra si aggira ancora alla ricerca di ristoro. Il parcheggio del locale dove stasera si infiammeranno legni, tasti e pelli sotto le dita sapienti di un trio strepitoso, è una lunga distesa di macchine: un massiccio membro dello staff instrada le ultime vetture ritardatarie, disegnando traiettorie con le sue possenti braccia, rivelando insospettabili capacità da mimo.
Siamo al CrossRoads, club ormai storico della capitale, un palco che è diventato un protagonista del rock romano, seppure non si trovi in posizione centralissima: alle porte della città, sul tratto urbano della Cassia, questo locale è diventato negli anni un crocevia (nome mai più azzeccato) imprescindibile per il rock di qualità. Il palco è stretto, le luci sono radenti, le birre scorrono tra patatine e panini: qui però il pubblico viene per ascoltare seriamente, non semplicemente per “esserci”. È un’arena infuocata, dove il suono ha ancora il potere di scuotere le ossa. L’acustica secca e il contatto ravvicinato rendono ogni concerto un’esperienza immersiva (per usare un termine ormai abusato), e l’arrivo di un artista come Paul Gilbert qui non è che l’ennesima conferma della linea editoriale del locale: da noi si suona sul serio.
Una luce rosata taglia il buio della sala che oggi è sgombra dei tavoli dedicati alle consumazioni: la platea del CrossRoads attende vigile e affamata di note. Non è la solita folla in trepidazione per un nome da stadio, ma un’adunanza affamata di maestria, un corteo di fedelissimi per i quali una plettrata ben eseguita vale più di un gradevole falsetto o di un arrangiamento accattivante.
Gilbert sale sul palco, puntualissimo, un elfo alto e dinoccolato, un volto sognante incorniciato da un paio di occhiali dalla montatura pesante che gli conferiscono un’aria da nerd sofisticato, un geniale secchione della chitarra che stasera ha deciso di concedersi una pausa dal suo approccio più metal e abbandonarsi alla nostalgia, regalandoci un’antologia di preziosità del suo e del nostro passato. Insieme a lui due validissimi strumenti: il basso accurato e impetuoso di Marco Galiero, alla sua seconda esperienza con Gilbert e l’incendiaria batteria di un giovanissimo ma già strepitosamente esperto Roberto Porta.
Paul Gilbert non avrebbe bisogno di presentazioni, ma per chi non avesse mai ascoltato rock duro negli ultimi trent’anni, sappiate che il nostro eroe, classe 1966, è di Carbondale, Illinois, ed è uno dei nomi che hanno ridisegnato la tecnica chitarristica globale e hanno imposto un approccio virtuosistico nell’heavy metal. Giovanissimo talento della Shrapnel, covo di innovatori della sei corde, studia al Guitar Institute of Technology (GIT) e diviene a sua volta insegnante. I suoi gruppi principali, tutti composti da autentici fuoriclasse della musica, sono stati i Racer X, una delle prime band speed metal e successivamente i Mr. Big, gruppo hard rock di largo successo. Dopo lo scioglimento di questi nel 1996, Gilbert ha abbracciato una prolifica carriera solista, pubblicando numerosi album e collaborando con artisti di rilievo nel mondo rock e metal.
L’apertura chiarisce subito il senso della serata, che rende omaggio a classici del passato attraverso un chitarrismo senza fronzoli, puro, essenziale, potente: il trio affronta con piglio un vero e proprio manifesto del blues rock ovvero “Too Rolling Stoned” di Robin Trower, un brano che imposta subito il tono del gruppo: atmosferico e virtuoso. E dimostrano efficacemente una poetica che pur rispettando le rigide regole armoniche del blues ne distorce i toni e la voce, accelera il ritmo e lo incastona nella monolitica aggressività dell’hard rock, senza rinunciare a momenti più lirici.
Da qui in poi la strada è spianata dagli assoli del folletto della tastiera e della sua splendida e tenebrosa Ibanez (rigorosamente signature), sostenuti dal ritmo incandescente del basso, in un irresistibile contrappunto con una batteria precisa, tempestosa, irrefrenabile. Il blues si fa più intenso, quasi sensuale nelle sue tonalità hendrixiane, in un crescendo citazionista che culmina in un assolo suonato con i denti. Il pubblico è compiaciuto, ma siamo solo all’inizio.
L’annuncio cade quasi distrattamente: “Pensavo di suonarvi qualcosa dei Led Zeppelin…” e da lì comincia un tripudio di note che mandano i fan in puro visibilio, scuotendoli nell’anima stessa: partendo con il ritmo sincopato di “Good times, Bad times” il trio compendia e cesella un medley infinito dedicato al “Martello degli Dei”, una girandola musicale infinita e inarrestabile, che scava nella discografia e pesca tutti loro classici, saldandoli come solo la memoria affettuosa e riverente di un appassionato saprebbe fare, reiterando riff maestosi e iconici come quello di “Whole Lotta Love”, epici come quello di “Kashmir”, ritmati ed energici come quelli di “Black Dog” o “Rock and Roll”, “Moby Dick” o “Custard Pie”, solo per citarne alcuni. Non mancano alcuni indugi sulle canzoni più famose, come l’ormai eterna “Stairway to Heaven”, o il ricordo di motivi più sperimentali, come quello di “Achille’s Last Stand”. Difficile rimanere immobili davanti a questa tempesta di ritmo e musica, accompagnata dalla voce gentile ma decisa di Paul, ma soprattutto incisa dalla sua invincibile maestria sulla tastiera. Non un omaggio di maniera, ma la testimonianza appassionata ed entusiasta di un ex ragazzo che, come noi, ha consumato i dischi dei Led, si è perso sugli acuti di Robert e ha sognato sugli assoli di Jimmy.
Il medley già basterebbe a saziare appetiti più semplici, ma Paul non si ferma e prosegue rilanciando una sequenza di brani che mescolano generi diversi ma tutti decisamente reinterpretati con il suo tocco inconfondibile. Si succedono blues più classici (come “Arrested for driving while blind” degli ZZ Top o “Leland Mississippi Blues” di Johnny Winter) oltre a pezzi più inconsueti, come ad esempio l’intricata “Long Distance Runaround” degli Yes o l’avvincente “Take the long way home” dei Supertramp, grazie anche all’entrata in scena della moglie di Paul, la tastierista Emi Gilbert. Si arriva anche a rispolverare datati ma affascinanti amori di Gilbert, come la trasognata "Voyager" di un vecchio gruppo con aspirazioni progressive nato sul finire degli anni 70, i Gamma.
Brano dopo brano, come se ce ne fosse bisogno, Paul Gilbert si conferma come uno straordinario chitarrista: un innovatore e un abilissimo interprete dello shredding – ovvero quella tecnica contrassegnata da un tocco veloce e dalla rapidissima successione di note in scale e arpeggi, spesso accompagnati dall’utilizzo della leva del tremolo per modulare la tonalità. Questa sera, il sound di Gilbert oltre ad essere un distillato di tecnica e precisione si è fatto manifesto di autenticità: nessun fronzolo coreografico né orchestrazione superflua, ma solo la sua chitarra che urla verità ed emozione pura. Il ritorno al blues non è una conversione, ma la conferma di un amore per una musica che è basata sulla fluidità, passionalità e, forse un paradosso per uno come lui, sulla lentezza. È infatti innegabile che negli ultimi anni il blues è sempre più presente nelle sue composizioni e nelle sue performance, sia come struttura di riferimento per la sua ispirazione, sia come repertorio di classici da rileggere e attualizzare.
Il Crossroads, con il suo spazio contenuto, rende poi l’intimità del club dannatamente efficace: ogni nota arriva nitida, rendendo quasi tangibile il dialogo tra il gruppo e il pubblico. Il saluto finale, a mani sollevate, è un gesto di rispetto reciproco, un patto rinnovato tra maestro e discepoli, nel nome di una religione immediata e naturale che rispetta la verità e predica il sentimento.
In un’epoca che rincorre hashtag e scorciatoie digitali, Paul Gilbert offre un antidoto: la musica suonata con la pervicace convinzione di chi non si accontenta, di chi ancora cerca l’azzardo e l'inconcepibile. E ci regala un concerto intenso, quasi due ore di fuoco puro, scolpito nella memoria degli spettatori come un’epifania sonora, che scolpisce un messaggio tanto semplice da sembrare quasi scontato: siamo umani e lo resteremo solo fino a quando saremo ancora capaci di emozionarci di fronte all’imprevedibilità e alla bellezza.
Le foto della serata, a cura di Gianluca D'Alessandria