Il primo lunedì di settembre negli Stati Uniti è Labor Day e in quel weekend i Phish suonano al Dick’s Sporting Goods Park di Commerce City, Colorado. La band è originaria del Vermont ma questo è nei fatti il loro vero e proprio ritorno a casa, una tradizione che va avanti dal 2011 e che costituisce ormai uno degli appuntamenti più amati dai fan, uno di quelli che contribuisce a definire un’attività live che, mai troppo numerosa, è sempre stata scandita in maniera piuttosto regolare.
I Phish hanno altri due momenti topici all’interno dei loro tour: le date a Las Vegas nella settimana di Halloween, culminanti col concerto del 31 ottobre in cui coverizzano interamente un disco famoso o si inventano altre diavolerie e gli show di Capodanno al Madison Square Garden; a questi ultimamente si è aggiunta la residence a Riviera Maya, destinata al pubblico messicano, un’abitudine condivisa da altre band americane che condividono il loro mondo (Widespread Panic, Dead & Company, ma anche Wilco e My Morning Jacket).
I Phish appartengono alla categoria delle cosiddette “Jam Band” e dunque hanno la prerogativa di improvvisare tanto durante i concerti e di cambiare scaletta sera dopo sera, due ingredienti che rendono i loro spettacoli molto più interessanti da fruire rispetto ai dischi in studio. Normale dunque che sin dagli albori (1988 o giù di lì) il gruppo consentisse ai fan di registrare gli spettacoli, base per un intenso tape trading nella comunità degli appassionati. Niente di nuovo, è una pratica inaugurata dai Grateful Dead (nome a cui i Phish sono spesso accostati, secondo me a torto) già alla fine degli anni ’60 e oggi, con il miglioramento della tecnologia specifica, sono sempre di più i gruppi che registrano le loro esibizioni e le mettono in vendita tramite i canali ufficiali.
Trey Anastasio e compagni però sono andati oltre: dopo essersi appoggiati alla piattaforma nugs.net, qualche anno fa hanno lanciato un’app specifica denominata livephish, sulla quale hanno caricato tutti i concerti tenuti dal 2003 a oggi, più tutta una serie di spettacoli, editi o meno, provenienti dai loro archivi, l’intera produzione in studio, la discografia solista dei suoi quattro membri con i rispettivi concerti (anche se di fatto l’unico a portare avanti una carriera parallela, anche in tour, è il cantante e chitarrista Trey Anastasio). Il servizio è a pagamento (al mese costa più o meno come Spotify) ed offre agli abbonati la fruizione di tutto il catalogo in streaming, ma c’è anche la possibilità, per chi non volesse abbonarsi, di acquistare gli show separatamente nel formato preferito, mp3, FLAC o addirittura cd.
Negli ultimi tempi, complice anche il Covid, i concerti vengono anche trasmessi in diretta video (questo però è un servizio aggiuntivo) e vengono messi a disposizione vari pacchetti che consentono di seguire anche l’intero tour.
Da noi i Phish non verranno mai, sono passati una volta sola in Europa nel 1997 (purtroppo le date italiane non sono mai state pubblicate) e non credo abbiano intenzione di farlo più, soprattutto ora che i costi sono lievitati esponenzialmente. Devo quindi ringraziare il loro ufficio stampa che, ancora una volta, mi ha dato la possibilità di seguire a distanza questo finale di tour. Certo, guardare un concerto dallo schermo di un computer è un mero surrogato ma in mancanza di alternative è pur sempre meglio di niente.
Le date a Commerce City (che di fatto è un sobborgo di Denver) quest’anno sono addirittura quattro e sono andate sold out quasi immediatamente, a dimostrazione dell’importanza che i fan del gruppo attribuiscono a questi particolari concerti (per la verità quasi ogni loro data va così ma queste sono particolarmente sentite). Su phish.net (un sito semiufficiale gestito dalla community vicina alla band) c’è un lungo report della prima serata, in cui l’autore si dilunga sul concetto di “ritorno a casa” che, per il pubblico e per il gruppo stesso, questo annuale appuntamento in Colorado rappresenta, ed è molto utile per chi volesse capire qualcosa di un fenomeno che, visto da fuori, appare come un culto irrazionale e fuori controllo.
Che cosa è successo dunque in queste quattro sere? Più o meno tutto quello che doveva succedere, tra vecchie consuetudini e qualche sorpresa. Qualche informazione sparsa per chi non fosse del giro: ogni concerto dei Phish dura in media tre ore ed è suddiviso in due set, con una pausa di 20-30 minuti nel mezzo. Alla fine del secondo set ci sono gli immancabili bis, che sono di solito due o tre, in qualche caso anche quattro. Sono una Jam band, quindi gran parte dei brani in scaletta ricevono il cosiddetto “Jam treatment”, in cui il gruppo si lascia andare alle improvvisazioni, partendo dal tema principale ma muovendosi poi su territori radicalmente diversi.
Prima ancora delle canzoni, dunque, sono le Jam ad attirare il pubblico e normalmente, più sono lunghe e più ci si esalta. Proprio per questa caratteristica negli anni sono fioccati i paragoni coi Grateful Dead ma si tratta di un accostamento fuorviante, come ho detto prima: al di là del fatto che la band di Jerry Garcia puntava molto di più sulla forma canzone (nonostante i luoghi comuni, il periodo davvero sperimentale e psichedelico è durato molto poco), è proprio la scrittura ad essere differente. I Dead hanno attinto a piene mani dal songbook della tradizione americana, esplorandolo in tutte le sue sfaccettature; i Phish sono molto più ecclettici e se è vero che nell’ultimo periodo hanno scritto dischi decisamente più canonici (basti pensare a Joy, a Fuego e soprattutto all’ultimo Sigma Oasis, forse il loro lavoro più accessibile), in passato hanno mostrato il loro lato più folle e schizofrenico, con tratti di umorismo demenziale (nei testi e nelle trovate dal vivo) indubbiamente ripresi da Frank Zappa.
Tutto questo li rende un gruppo enormemente più complesso da approcciare rispetto ad altri act americani come Widespread Panic, String Cheese Incident o Allman Brothers Band; ciononostante, il seguito di cui godono da decenni e il livello di dedizione del pubblico nei loro confronti è al di là di ogni comprensione.
Aggiungiamo un’altra importante caratteristica a quelle già elencate: cambiano scaletta ogni sera ma lo fanno in maniera molto maggiore rispetto ai colleghi. In particolare, quando suonano più date nella stessa città, hanno come regola non scritta il non ripetere mai nessuna canzone; hanno un numero infinito di cover nel cassetto, una discografia parallela di brani che non sono mai stati incisi in studio ed anche il repertorio solista dei quattro membri finisce spesso in scaletta. Risultato? Ad ogni tour (che di solito ha una media di 25 date) i brani proposti sono sempre più di 200. Follia totale, me ne rendo conto, se non fosse che è esattamente questo l’aspetto che me li rende così intriganti.
La prima data al Dick’s Sporting Good è all’insegna del fan service, con una setlist incentrata sui brani che vengono suonati più spesso dal vivo, a partire da un’ipnotica “Sand”, che sfocia in una rockeggiante “Down With Disease”. Classici come “Axilla, Part II” e “Theme From The Bottom” sono protagonisti del primo set, accanto all’ottima “Back on The Train”, che garantisce sempre un’ottima quota di Blues, e l’anthemica “Blaze On”, che pur provenendo da un disco debole come Big Boat, negli anni è riuscita a ritagliarsi uno spazio privilegiato e che dal vivo in effetti funziona molto bene.
Abbastanza telefonato anche il secondo set, con evergreen del calibro di “Possum”, “Twist” e “Piper”, oltre alla scintillante cavalcata “Ruby Waves”, direttamente dal repertorio di Trey Anastasio. Presente anche “A Wave of Hope”, un brano inedito che è stato suonato spesso nell’anno in corso e che, chissà, potrebbe finire sul prossimo disco. Una sola sorpresa, costituita da “Don’t Doubt Me”, tratta dal disco fittizio Sci-Fi Soldier, presentato la scorsa notte di Halloween a Las Vegas. Terza esecuzione in assoluto, prima volta con Jam, decisamente un momento da ricordare.
Un unico bis, ed è “Harry Hood”, tra i cavalli di battaglia più famosi, sempre bello da ascoltare nelle sue strutture simil Prog.
Serata nel complesso canonica ma di livello altissimo, come da sempre i nostri ci hanno abituato. I 25 minuti complessivi dei primi due brani e la lunga improvvisazione conclusiva su “Piper” sono stati a mio parere i momenti più emozionanti.
La sera dopo purtroppo è sfortunata: c’è stato un brutto temporale (sono stato da quelle parti diversi anni fa e ricordo che questo tipo di eventi era frequente e molto problematico) e l’inizio dello show è slittato di qualche ora. A causa delle regole sul coprifuoco, dunque, il gruppo si trova costretto ad accorciare la propria esibizione, un solo set per una durata complessiva di due ore e venti. Sembrerà strano ma vi assicuro che per lo standard dei Phish è proprio poco, sono abbastanza certo che tra i fan ci sarà stata un bel po’ di delusione (soprattutto tra quei pochi che avessero acquistato il biglietto solo per quella serata).
Quel che si è visto, comunque, non ha deluso: dall’iniziale “Carini”, che ha aperto col suo riff granitico e che si è come sempre prestata ad una Jam di grande effetto, passando per i quasi 20 minuti di “You Enjoy Myself”, uno dei loro brani simbolo, i trip psichedelici di “Ghost” e “Tweezer”, vecchi brani ultra collaudati come “Reba” e “Weekapaug Groove”. Ha fatto capolino anche una bella versione della “Moonage Daydream” di Bowie e poi, nei bis, una “Pebbles and Marbles” che ha fatto da contraltare, con le sue suggestioni pianistiche, all’energia di “Chalk Dust Torture” con cui hanno chiuso il set.
La terza serata inizia puntuale senza inconvenienti e si è trattato forse dello show più solido. Partenza a razzo con “Punch You in The Eye”, poi la sorpresa di una lunga “Walls of The Cave” in posizione iniziale, quando normalmente viene usata per chiudere il set. In un contesto decisamente povero di chicche, spicca “Heavy Rotation”, un brano del tastierista Page McConnell, per il resto la prima parte ruota attorno ad ottime versioni di “Stash” e “Mike’s Song”. La vera e propria sorpresa arriva però in seguito con “Thunderhead”, da un disco sempre poco rappresentato come Round Room e che oltretutto non veniva suonata dal vivo dal 2003: non ci si dilungano troppo, è una versione breve ma entusiasma comunque. Anche questa volta c’è una cover, ed è “No Quarter” dei Led Zeppelin, col batterista John Fishman ad occuparsi delle parti vocali. Poi è tutto come al solito: “Sigma Oasis” ormai arriva spessissimo (e forse ci ha anche un po’ stufato, oserei dire), stessa cosa per “The Moma Dance” ma il suo ritmo Funk è sempre irresistibile. Nei bis colpisce “Fee”, con Trey che canta le strofe al megafono, mentre “Slave to the Traffic Light”, un brano che ben si presta come base per lunghe improvvisazioni, è sempre uno dei modi migliori di chiudere, anche se oggi non dura tantissimo.
L’ultima sera c’è un lungo striscione in transenna, messo dai fan per ringraziare Paul Ingwersen, per tutti PI, stage manager della band dal 1996, che oggi se ne va in pensione. Verrà salutato ufficialmente nei bis, subito dopo “The Divided Sky”, coi quattro che lo omaggiano con una rarissima versione di “Icculus”, uno strambo e demenziale brano degli esordi che in più di trent’anni è stato suonato appena trenta volte. È il segno della comunione che i Phish hanno saputo creare tra pubblico, crew (una sessantina di persone, tanto è impegnativo portare avanti un progetto come il loro) e pubblico, un’esperienza non comune alla maggior parte delle band e, questo sì, un punto di grande vicinanza con i Grateful Dead.
Com’è andato dunque quest’ultimo concerto? Molto bene, ha confermato la tendenza a puntare sulle cose maggiormente collaudate, come se volessero congedarsi da questo tour estivo offrendo una fotografia il più possibile realistica di quel che sono oggi. In un concerto che ha visto proposti altri classici come “Bathtub Gin”, “Fluffhead” e “David Bowie”, accanto ad alcuni dei più importanti brani recenti come “Everything’s Right” e “More”, è senza dubbio spiccata la mezz’ora complessiva di “Set Your Soul Free” e “Fuego”, proposte senza soluzione di continuità in una lunga Jam che ha attraversato spesso territori lisergici. E poi una bellissima “Crosseyed and Painless”, perché i Talking Heads, tra le innumerevoli band che amano coverizzare, sono forse quelli di cui riescono maggiormente a ricreare l’intenzione, e le divagazioni che portano avanti a partire dalla struttura principale, sono sempre di grande effetto.
I Phish più che una band sono un fenomeno sociologico. È facile odiarli o anche solo trovarli noiosi e ci sarebbero milioni di ragioni più che legittime per farlo. Sono anche un gruppo fin troppo legato al territorio e alla cultura americana, se non sono popolari in Europa è proprio perché è molto difficile capirli, perché apprezzarne la proposta musicale davvero forse non è abbastanza. Sono un fenomeno a sé nella storia della musica, è un’impresa ostica anche solo capire che posto occupano. Detto questo, io li ho sempre trovati tremendamente affascinanti ma se mi chiedeste per quale motivo, credo che farei fatica a rispondervi. Adesso testa agli show di Las Vegas (non ancora annunciati ma immagino che ci saranno) e per ingannare l’attesa, niente di meglio che la manciata di concerti che la band di Trey Anastasio terrà tra fine settembre e inizio ottobre. Lo so, è molto più di una malattia.