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REVIEWSLE RECENSIONI
23/07/2025
Arcade Fire
Pink Elephant
A tre anni da We, gli Arcade Fire tornano con Pink Elephant. Non un disco di redenzione, ma una lunga seduta di autoanalisi in cui Win Butler e Régine Chassagne tentano di parlarsi, senza mai riuscire davvero a comunicare. Il risultato è un’opera affascinante, a tratti frustrante e disperatamente umana, più coinvolgente da analizzare che da ascoltare.

Sono passati più di vent’anni da Funeral e quindici da The Suburbs, e ormai l’uscita di un nuovo album degli Arcade Fire non scuote più le fondamenta del mondo indie. Il mezzo passo falso di Everything Now (tanto simbolico quanto commerciale) ha incrinato lo status della band canadese, e il successivo We non è riuscito a riportarla al centro della scena.

Nel frattempo, la musica è andata altrove, e Win Butler ha visto la propria immagine mutare: da profeta indie osannato da icone come David Bowie e David Byrne a figura controversa, segnata dalle accuse di cattiva condotta sessuale esplose con l’inchiesta pubblicata da Pitchfork nel 2022. Butler ha ammesso relazioni extraconiugali, sostenendo però che fossero consensuali. Régine Chassagne (moglie e partner musicale) ha confermato di esserne a conoscenza, attribuendo il tutto a un momento difficile nella vita del marito. La coppia si è ricomposta, ma la frattura nell’opinione pubblica resta: la reputazione del gruppo ne è uscita compromessa, e persino le recenti apparizioni al Saturday Night Live e al Tonight Show con Jimmy Fallon hanno generato più polemiche che entusiasmo.

È in questo contesto che nasce Pink Elephant, settimo album in studio della band e probabilmente il più introspettivo, criptico e disperato della loro carriera. Un disco che, più che come un'opera collettiva, suona come un dramma da camera in versione canadese, una sorta di Scene da un matrimonio di Bergman. A conti fatti, oltre a Butler e Chassagne, gli altri membri storici (Jeremy Gara, Tim Kingsbury e Richard Reed Parry) appaiono con la discrezione dei parenti lontani, presenti più per cortesia che per reale coinvolgimento.

 

Il titolo è già una dichiarazione d’intenti. Pink Elephant richiama la teoria dei processi ironici: più si tenta di reprimere un pensiero, più questo si impone. L’elefante rosa è proprio questo: il non detto che occupa ogni spazio, il trauma mai nominato ma onnipresente. L’album non si concentra tanto su ciò che viene espresso, quanto su come evitarlo. È, prima di tutto, un esercizio di rimozione. Lo si intuisce subito da “Open Your Heart or Die Trying”, un’apertura ipnotica che ricorda più le atmosfere sospese di Hans Zimmer in Dune che il classico sound degli Arcade Fire. Un drone lento, meditativo, quasi immobile, che genera un’emozione trattenuta, forse temuta. Il nodo centrale del disco arriva con la title track, che si regge sul verso "Take your mind off me", perfetta sintesi della teoria di Daniel Wegner: più provi a ignorare qualcosa, più ti resta addosso.

Pink Elephant è attraversato da una tensione costante tra il desiderio di dire e la paura di esporsi, tra espressione personale e autocensura. “Year of the Snake”, aperta dalla voce di Chassagne, prova ad ampliare la prospettiva, ma resta invischiata in immagini simboliche di rinascita (il 2025, secondo il calendario cinese, è proprio l’anno del serpente) e in un linguaggio eccessivamente criptico ("I’m a real boy / My heart’s full of love / It’s not made out of wood"), sospeso tra sincerità e goffe citazioni di Pinocchio. La produzione di Daniel Lanois – già al lavoro con U2, Peter Gabriel e Bob Dylan – costruisce un paesaggio sonoro ovattato, quasi avvolto in una nebbia elegante. Il rischio, però, è che in questa rarefazione si perda la dimensione corale che ha sempre definito il gruppo. L’energia viva e caotica che percorreva persino un disco cupo come Reflektor qui si è dissolta del tutto.

 

Ogni tanto, però, qualcosa affiora. “Circle of Trust” e “Alien Nation” provano a scuotere l’ascoltatore, strizzando l’occhio agli LCD Soundsystem, ma più che slanci emotivi sembrano esercizi di stile: gli inserti vocali pitchati di “Alien Nation”, in particolare, risultano tutt’altro che riusciti. Eppure, il disco sa ancora sorprendere. “Ride or Die” è una ballata semplice e asciutta, che guarda al Nebraska di Springsteen ed è toccante proprio perché non cerca di esserlo. Butler canta di una vita alternativa fatta di lavori ordinari e sogni ridimensionati. È nella sua vulnerabilità che, per la prima volta, appare davvero sincero.

Dopo l’elettropop inquieto di “I Love Her Shadow” (che ricorda la tensione latente di “Every Breath You Take” dei Police) arriva “Stuck in My Head”, introdotta dalla strumentale “She Cries Diamond Rain”. È il momento più catartico del disco, e non a caso l’unico in cui suonano insieme tutti i membri fondatori della band. Il brano è un flusso di coscienza frammentato e a tratti disturbante, in cui Butler abbandona ogni filtro. Una confessione storta, forse teatrale, ma intensissima. Un lampo di verità – finalmente – in cui il disco sembra davvero rischiare qualcosa. Ma quella crepa si richiude in fretta, Butler torna a proteggersi e la frase "Clean up your heart" diventa più un mantra terapeutico che un verso poetico.

 

L’album si chiude così, senza offrire risposte: nessuna confessione definitiva da parte di Butler, nessuna redenzione – e forse va bene così. Chi cerca gli Arcade Fire epici di “Wake Up” o “No Cars Go”, qui troverà poco o nulla. La band non è più una comunità corale, ma una coppia chiusa in sé stessa che si apre agli altri solo quando si sente al sicuro. Eppure, Pink Elephant conserva qualcosa dei tanto amati esordi: una bellezza fragile, esitante, un’inquietudine sottile che è sempre stata parte del DNA degli Arcade Fire. E il fatto che, nonostante tutto, sia ancora lì, è forse l’aspetto più prezioso di tutto il disco.