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REVIEWSLE RECENSIONI
11/01/2022
The Record Company
Play Loud
Il ritorno sulle scene dei losangelini The Record Company, con un disco più elaborato e mainstream in termini di suono e arrangiamenti.

L’esordio dei The Record Company, datato 2016, fu un fulmine al ciel sereno, uno di quei dischi che fa rizzare le antenne alla stampa specializzata e capace di coagulare velocemente il consenso da parte del pubblico. Non tanto per la novità della proposta, una miscela di rock e blues con qualche debito da pagare al passato, quanto semmai per il modo arrembante e sanguigno di rileggere, senza troppi fronzoli, sonorità abbastanza prevedibili.

Il trio di stanza a Los Angeles ha svoltato velocemente, ha saputo cogliere l’attimo, interpretandolo al meglio, e dando vita a una crescita mediatica costante, che, agli esordi (2011), li ha visti macinare migliaia di chilometri per suonare in piccoli locali davanti a sparuti gruppi di appassionati, fino a meritarsi, nel 2017, la nomination ai Grammy (poi, vinto da Fantastic Negrito) per il miglior disco blues dell’anno.

Un successo che, nel giro di soli dieci anni, ha avvicinato sempre più i Record Company al mainstream, in una parabola artistica che ricorda da vicino quella dei Black Keys. Intendiamoci, la band non si è sputtanata e la qualità di questo nuovo Play Loud è comunque alta; semplicemente si sono fatti un po' furbetti, e senza rinnegare completamente le loro origini, hanno reso il songwriting meno crudo e più radio frendly. Non è un caso, quindi, che la band abbia optato per un produttore come Dave Sardy, che ha già lavorato con gruppi di altissimo profilo come Oasis e LCD Soundsystem, e abbia tentato una diversificazione del suono, guardando al soul ("Paradise"), giocando col funky nella sua accezione più piaciona (il singolo "How High") e cadendo nella tentazione pop di "Get Up And Dance!", irresistibile traino verso la pista da ballo.

Nessuno stravolgimento, per fortuna, nessun ricorso all’elettronica o deragliamento nell’hip hop, per citare due possibili contaminazioni. Le canzoni, infatti, continuano a ruotare intorno al suono della chitarra, anche se si sono arricchite di sovraincisioni che ingrassano un po' il suono e non disdegnano aperture melodiche laddove, invece, il risultato poteva essere più duro e puro (il riff stonesiano dell’iniziale "Never Leave You"). La versione più grezza dei Record Company trova realizzazione compiuta solo nell’ottima "Gotta Be Movin’", che plasma un pattern di chitarra alla Tinariwen, come a voler ribadire che le origini non sono e non vogliono, comunque, essere dimenticate.

Il cambiamento, però, è in atto, impossibile non rendersene conto, e apre, come spesso accade, a diatribe fini a se stesse tra ortodossi e chi invece è più predisposto ad accettare cambiamenti. Dal nostro punto di vista, preferiamo che una band si assuma dei rischi e provi a evolversi, perché continuare a fare lo stesso disco e a ripetere lo stesso mantra, senza annoiare, è privilegio di pochissimi. A conti fatti, il gruppo losangelino è riuscito nell’intento di aggiornare la propria proposta senza terremoti, ha mantenuto intatta la propria grinta, pur allargando i confini del blues rock e scegliendo una produzione decisamente più elaborata. Niente, dunque, che faccia scappare a gambe levate i fan della prima ora, ma un modo, con molta probabilità vincente, per conquistare alla causa nuove schiere di fan.