Se è vero che tre indizi costituiscono una prova, allora è definitivamente chiaro alle orecchie di tutti che Xavier Amin Dphrepaulezz, al secolo meglio conosciuto come Fantastic Negrito, possiede le stigmate dell’autentico fuoriclasse. Il suo, infatti, è stato un crescendo rossiniano portentoso, iniziato nel 1993 sotto il moniker di Xavier, interrotto da un gravissimo incidente d’auto (la copertina del disco richiama esplicitamente quella drammatica esperienza) e da uno iato quasi decennale, e ripreso nel 2014 con un album, Fantastic Negrito, il primo pubblicato sotto la nuova ragione sociale.
Da quel momento in poi, il nome di Xavier Amin Dphrepaulezz, è cominciato a circolare con molta insistenza fra gli addetti ai lavori e gli appassionati, fino a diventare una sorta di mantra di qualità, quando il songwriter originario del Massachusetts, nel 2017, si portò a casa un Grammy Award per il miglior album di blues contemporaneo con lo splendido The Last Days Of Oackland (2016).
Oggi, Fantastic Negrito ha appena pubblicato il suo terzo album, Please Don’t Be Dead, dimostrando con prova provata che il suo non era affatto un fuoco di paglia, e che quelle idee prossime al colpo di genio che avevano animato i suoi due lavori precedenti, non solo hanno trovato ulteriore conferma, ma hanno prodotto un risultato addirittura superiore.
Please Don’t Be Dead (interamente autoprodotto) è un disco che lascia stupefatti per la visione d’insieme, come se, giunto a cinquant’anni suonati, Xavier Amin Dphrepaulezz avesse fatto un bilancio delle proprie esperienze e incamerato, compreso e rielaborato pagine fondamentali di storia della black music e del rock, per poi riplasmarle con un suono e uno stile unici e di modernità assoluta.
Le undici canzoni in scaletta, infatti, sono uno zibaldone di citazioni, un patchwork arditissimo di deja vù; eppure, nonostante non ci sia nulla di veramente nuovo, la miscela è talmente originale, colorata e fantasiosa da apparire, anche ad orecchie allenate, qualcosa di realmente inaudito.
Xavier, infatti, nasconde i punti di riferimento, crea alchimie fra suoni lontani, trae in inganno con il trompe l’oil di brani che partono con una struttura e finiscono proprio là, ove era impensato finissero, suggerisce coordinate e poi, prendendo alla sprovvista l’ascoltatore, cambia improvvisamente rotta. Mischia le carte, perché le canzoni suonino al contempo famigliari e spiazzanti, in un unicum che è tutto fuorché prevedibile o lineare.
La deflagrazione di Plastic Hamburgers, con cui si apre il disco, è innescata dalla miscela incendiaria fra un riff zeppeliniano, funky e moderno spiritual (qualcuno ha detto Algiers?): è un diretto sullo zigomo, un brano che fa godere rockettari incalliti e saltare in piedi gli amanti della black music per un compendio di tre minuti e mezzo che si mangia in un boccone l’intera discografia di Lenny Kravitz.
Siamo solo all’inizio, però, di un disco in cui ogni canzone regala un’intuizione che definire felice è essere riduttivi. Bad Guy Necessity è un funky eviscerato dai bisturi di un ritornello stonesiano al midollo, A Letter To Fear ricicla la progressione discendente di Dazed And Confused degli Zep mettendola al servizio di quella che in realtà si rivela un’intensa ballata gospel.
Non c’è tempo per stupirsi, né un attimo di pausa, perché tutto fluisce strano e inatteso: la danza sciamanica di A Boy Named Andrew che viene accerchiata da una chitarra acida di morsura, il nu soul stiloso di Trasgender Biscuits, che sembra una bonus track da Fly Or Die dei Nerd, il lamento spirituals di The Suit That Won’t Come Off, attraversato da una chitarra affilatissima e che si scioglie in un’accorata melodia soul, o l’inaspettato tributo alla disco music anni ’70 contenuto nella strabiliante The Duffler, forse il miglior episodio del lotto.
E si potrebbe andare avanti così a raccontare ogni singolo brano di un lavoro che non presenta la benché minima ombra di filler. Se, infatti, solo un decimo dei dischi ascoltati quest’anno contenesse la metà delle idee e delle intuizioni che animano Please Don’t Be Dead, sarebbe, per noi appassionati, come vivere nel paese dei balocchi. Indispensabile e bellissimo.