Cerca

logo
REVIEWSLE RECENSIONI
10/02/2023
Malcolm Strachan
Point Of No Return
"Point Of No Return" è paragonabile a un mare, un luogo speciale nel quale convergono una serie di fiumi. Dal groove del jazz modale ai ritmi della samba, da afflati latini alle “good vibrations” delle colonne sonore cinematografiche e, lungo il percorso, alcune intense ballate da trattenere il respiro. Profondo e immenso, impetuoso, pieno di vita.

Dopo il sorprendente debutto About Time, Malcolm Strachan torna con Point Of No Return, un album fresco e brillante di declinazione jazz fusion, che si snoda in sette brani e strizza marcatamente l’occhio al funk e al soul negli arrangiamenti, tracciando un parallelo con il suo idolo dichiarato Freddie Hubbard, pioniere, negli anni Settanta, di nuove sonorità per il jazz moderno e il bepop. Gli assoli del trombettista scozzese sono intensi e solidi, ma all’enorme tecnica si aggiungono cuore, sensualità e capacità di improvvisazione, così da rendere ogni canzone speciale e fluttuante verso un’ardita nonché riuscita mescolanza di generi. Contribuisce a rendere di alto livello questo progetto un ensemble di musicisti fenomenali, la maggior parte dei quali provenienti dai The Haggis Horns, celebre gruppo britannico di base a Leeds attivo da due decenni (Strachan ne è membro fondatore), che rinnova i fasti della Average White Band con un R&B screziato di funky soul rigoglioso di citazioni e influenze.

Già grazie alla frizzante opener "Nossa Danca" si corre a cavallo tra bossa nova e acid jazz, con una tromba che graffia, un raffinato intreccio acustico tra i vari strumentisti che poi porta a “soli” scintillanti, e il pianoforte di George Cooper, noto per il suo lavoro con i Jazz Defender, a tessere ricami per gran parte del paesaggio sonoro costruito; ma il viaggio non è ancora terminato: sul finire giungono i brividi ascoltando i gorgheggi dell’ospite Jo Harrop, voce d’accompagnamento alla melodia in stile Flora Purim, leggendaria cantante brasiliana. "Soul Trip", invece, induce veramente, come sollecitato dal titolo, a un viaggio nel profondo dell’anima, con quel suo trascinante inizio a colpi di contrabbasso (Courtney Tomas) e percussioni (Sam Bell), prima che si dipani un pittoresco groviglio di suoni a metà strada tra i Santana e John Coltrane, con "A Love Supreme" nel mirino, capolavoro indiscusso che, tra l’altro, accomuna i discepoli di San Francisco al loro Maestro “Trane”. Gli arrangiamenti sono di gran classe - (scorrono fiati spumeggianti, fa capolino un flute da favola (Atholl Ransome) -, e ricordano la lezione del grande Professore della contaminazione Eumir Deodato. L’idillio prosegue in egual misura con "The Wanderer", governata da un incantevole riff di tromba e dai vocalizzi di una straripante Jo Harrop.

 

Terminato l’orgasmo musicale dei primi tre tiratissimi pezzi, giunge la quiete di "The Last Goodbye", ove la scrittura di Strachan si specchia nel repertorio più “regolare” di Miles Davis, per un motivo contraddistinto dagli archi suonati da Richard Curran e arrangiati da Phil Steel. Una ballata struggente, con un’immersione totale dei suoni delicati creati dal musicista nella fitta trama di violini. L’atmosfera sognante, eterea, ancora una volta conferma quanto la tromba sia uno degli strumenti più sensuali e sussurranti, in grado di scavare un tunnel nel profondo del cuore per lenire tormenti e sofferenze, e rasserenare anche gli animi sempre in pena. La seguente "Elaine" ondeggia serenamente per merito degli archi agganciati a un drumming sostenuto dal tambureggiante Bell e pilotato con esperienza da Erroll Rollins, ma è forse il pezzo più derivativo, con fraseggi fin troppo vicini ai classici della tradizione latino-americana.

Il fatto che Malcolm Strachan sia pure uno dei session man maggiormente richiesti (Jamiroquai, Corinne Bailey Rae, Amy Winehouse, Mark Ronson e il mitico Lou Donaldson sono solo alcuni nomi) si evince ascoltando "Cut to the Chase", una scorribanda jazz fusion intinta e profumata da una colorata e fragrante atmosfera brasiliana di sapor danzereccio.  Il primo singolo dell’opera si distingue per un’incisiva sezione di ottoni, con Danny Barley al trombone, Atholl Ransom al tenor sax, e fa trattenere il fiato per un assolo di tromba con sordina di qualità rara da parte di Strachan, un tripudio di spontaneità prima di un’estrosa svisata al piano stavolta grazie a Cooper, mentre Bell furoreggia ai bonghi. Il mood è quello dei spy thriller e si odono echi alla James Taylor Quartet.

 

“Ho cominciato a suonare la tromba a sette anni, ma già a cinque cantavo nella band di mio padre, che aveva un ‘residency show’ in un hotel di Inverness e poi girava per tutta la Scozia eseguendo standard degli anni Trenta, da Fats Waller a Gershwin. Poi in casa c’era un piano, una grande collezione di dischi, specialmente di jazz e classica, e ho cominciato a imparare le canzoni a orecchio per merito di papà. Ancora oggi quello è il mio metodo preferito, non sono un gran ‘lettore’ di musica”.

 

Sicuramente questo tipo di approccio ha favorito la genuinità, l’immediatezza con cui Malcolm Strachan si appropinqua alla musica. Art Blakey e Dizzy Gillespie sono nel suo cuore, insieme a tanti altri giganti del genere, ma basta immergersi nella jazz ballad "Maybe Next Time", ultima traccia di Point Of No Return, per capire che il trombettista britannico è davvero giunto a un punto di non ritorno: la sua strada è tracciata, verso un sentiero sonoro peculiare che si sta a mano a mano staccando dai percorsi precedenti. Il jazz rimane e rimarrà passione e ossessione, ma ormai la sua tavolozza personale si è arricchita dei colori più svariati: il funk, il soul, il pop e la loro congiunzione con atmosfere latineggianti, indirizzate verso samba e bossa nova, fanno parte del suo background, perché, anche sforzandosi, per lui non esistono orizzonti, suona la tromba come se andasse in trance. Diventano un tutt’uno e ogni soffio è come se fosse l’ultimo respiro.