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REVIEWSLE RECENSIONI
07/07/2017
Blondie
Pollinator
Pollinator risulta comunque un disco discreto, perfettamente in linea con il recente passato della band, e coinvolgente quel tanto che basta a tenere vivo il mito Blondie

Per quelli, come il sottoscritto, che per un certo periodo della loro vita hanno dormito con il vinile di Parallel Lines sotto il cuscino e hanno fatto di Debbie Harry un’icona sessuale della propria adolescenza, l’uscita di un nuovo disco dei Blondie è sempre un momento catartico. La band newyorkese, a dire il vero, dopo la reunion del 1997, ha mantenuto un target prevalentemente dignitoso, ma non è più stata in grado di rinverdire gli antichi fasti. Eppure, la biondina più eccitante del rock, nonostante l’età che avanza (saranno 72 a luglio), non molla un colpo: così la speranza di ritrovarsi fra le mani un altro gioiellino non è mai venuta meno, nutrita, anno dopo anno, da quel misto di affetto e nostalgia, che tiene vivi i ricordi ma offusca un poco la percezione obiettiva del presente. Tuttavia, anche a voler dismettere i panni del fan e a vestire quelli più austeri del recensore, Pollinator risulta comunque un disco discreto, perfettamente in linea con il recente passato della band, e coinvolgente quel tanto che basta a tenere vivo il mito Blondie. Il suono, nonostante un filo di maquillage per renderlo più attuale, resta in sostanza quello che da sempre conosciamo: un’azzeccata commistione fra pop, punk-rock e new wave, geneticamente modificata da cromosomi dance. Se vi piaceva quarant’anni fa, perché dovrebbe dispiacervi oggi? Certo, nel 1978, queste canzoni erano grintose, innovative e segnavano la nascita di un nuovo suono; oggi, perso l’effetto sorpresa, suonano solo un po’ prevedibili. Eppure, un brano come Fun, divertito tributo a certa disco music dell’epoca, possiede un tiro da dance floor che molti giovani band farebbero carte false anche solo per sognarselo di notte. Nello stesso modo, vincono ai punti contro il tempo che passa anche l’opener pop punk di Doom Or Destiny (ospite Joan Jett) e la new wave spigolosa di Best Day Ever (gentile omaggio di Sia). Non tutto il disco, però, risulta centrato: la produzione di John Congleton (Modest Mouse, David Byrne, John Grant, etc) è un filo sovrabbondante, tende a riempire quando potrebbe asciugare (la pur buona Long Time), e alcune canzoni, ammettiamolo, sono obbiettivamente bruttine e suonano come riempitivi fin dalla prima nota (Love Levell). Il disco, però, nonostante qualche passo falso, regge alla distanza, e se è pur vero che gli anni gloriosi sono solo un ricordo, ci sono modi di gran lunga peggiori per invecchiare.