Cerca

logo
REVIEWSLE RECENSIONI
29/10/2024
Tess Parks
Pomegranate
L’artista canadese Tess Parks, di stanza a Londra, ritorna con il suo terzo album solista, Pomegranate. Ancora una volta l’amalgama tra dream pop, psichedelia “soffice” e voce fluttuante ed etera coglie il bersaglio sin dal titolo dell’album, dedicato ad un frutto tra i più belli e misteriosi: il melograno.

Essendo stato fortemente colpito dal titolo dell’ultimo album dei Godspeed You! Black Emperor (disco della settimana per Loudd di cui potete ritrovare qui al recensione) prima di addentrarci nella recensione dell’ultima opera della musicista canadese e di quanto dalla stessa dichiarato in sede di promozione dell’album (che sarà riportato in calce alla recensione) mi pare intrigante spendere due parole sul titolo dell’album, dedicato al frutto del melograno, o melegrana, che dir si voglia.

Il melograno è un frutto che riveste una simbologia ambivalente, per le culture antiche era simbolo di fertilità e di maternità, per il popolo ebraico è uno dei frutti presenti nella Terra Promessa, e i numerosi chicchi presenti al suo interno rimanderebbero alle prescrizioni presenti nella Torah.

Nei miti greci è collegato al mito di Persefone, rapita da Ade per essere condotta nel suo regno; pur a seguito dell’intervento di Demetra, che richiede a Zeus di ordinare di liberarla, è difatti costretta a dividersi tra i due mondi: per sei mesi in quello dei morti e per sei mesi in quello dei vivi, avendo mangiato sei chicchi del melograno che le era stato offerto. Un immagine ben rappresentata dal punto di vista iconologico dal famosissimo quadro del pittore pre-raffaelita Dante Gabriel Rossetti, "Persefone".

Nella religione cristiana diventa invece uno dei simboli della passione di Gesù Cristo: la buccia legnosa richiama il legno della Croce, il succo vermiglio dei semi, il sangue versato per la redenzione dell’uomo. L’iconologia qui è davvero immensa, basti ricordare le Madonne dipinte con questo frutto dal Beato Angelico (la “Madonna della melagrana” conservata al Prado), quella di Lorenzo di Credi, fino a quella di Botticelli (visitabile agli Uffizi) e quella del Pinturicchio (Siena).

Quale di questi simboli sarà stato oggetto della riflessione di Tess Parks cercheremo di scoprirlo alla fine di questa recensione.

 

Di Tess Parks chi se intende sa già (quasi) tutto: scoperta da quel “geniaccio” di Alan Mc Gee (che per il sottoscritto passerà alla storia per aver fondato la Creation Records e i Biff Bang Pow!, non certo per essere stato lo scopritore degli Oasis), famosa per le sue collaborazioni con Anton Newcombe, front-man dei Brian Jones Massacre (assurto recentemente alle cronache per il litigio furioso sul palco di Melbourne lo scorso Novembre 2023 con il chitarrista Ryan Van Kriedt).

Eviteremo il solito accostamento con la cantante dei Mazzy Star, Hope Sandoval, ma dove non possiamo proprio non passare oltre è l’individuare la ricerca musicale di Tess Parks nel solco di quello che è stato chiamato Dream Pop.

 

Sul finire degli anni Ottanta, infatti, gli stilemi oramai un poco stantii del post-punk di matrice tenebrosa (ma anche ammiccante alla dance, vedi la recensione dei compagni di scuderia Black Doldrums, qui) venivano in Inghilterra “rivitalizzati” da una serie di artisti che migrarono quel suono verso lidi più eterei.

Quali padri putativi del genere vengono da molti indicati i Cocteau Twins, personalmente tuttavia dissento, in particolare in merito ai primi album di questo grande gruppo; se tuttavia si vuole individuare in Liz Frazer, e in particolare nel suo modo di cantare, una progenitrice del dream pop, non posso che convenirne.

Dove le chitarre presero il sopravvento nacque lo shoegaze, dove invece il suono si stratificò in spirali armoniche ricche di riverberi, su cui il cantato (normalmente femminile) viene come a galleggiare, ecco il dream pop (chi si ricorda dei Dream Academy o degli Shelley Orphans alzi la mano).

Ma l’analisi di tale genere, per il modesto parere dello scrivente, deve necessariamente prendere in considerazione anche l’altra parte dell’oceano dove, contestualmente a quello che succedeva in Inghilterra, una serie di gruppi maggiormente orientati verso una psichedelia soffice recepirono il genere arricchendolo di elementi tratti dal folk di matrice psichedelica dai ritmi normalmente rallentati (e qui si torna ai Mazzy Star, epigoni degli ancora più grandi Opal).

 

Fatta questa debita premessa, passando al disco in questione, diciamo subito che si tratta di un bell’album, che presenta, oltre ad una miscela dreamy e psych-folk, anche un tocco pop, basti pensare as esempio a “Crown Shy”, singolo che ha preceduto il lancio del disco, dove una chitarra si dondola su un tappeto di archi e su un drumming posato.

Ma, partendo dall’inizio, sinceramente è da molto che non ricordo un vecchio “lato A” di pezzi di immediata presa come “Bagpipe Blues”, col sapiente utilizzo di uno strumento da chi scrive non particolarmente amato in ambito rock come il flauto; seguita dall’intro di organo di “California’s Dreaming”, che introduce in uno dei brani più accattivanti dell’intero album, “Koalas”, dove sapientemente il ritmo si placa in una ballata di sapore folk.

Ma non è finita: si riparte con “Lemon Poppy”, dal ritornello di immediata presa e da un assolo di chitarra squisitamente US oriented. Atmosfere southern-folk permeano anche il successivo “Charlie Potato”, dove Tess Parks si cimenta in un recitato che ricorda l’ultimo album dei Mercury Rev (vedi la recensione qui).

Una nota di merito va inoltre al brano di chiusura dell’album, “Surround”, dove fa capolino un synth che apre la finestra di un modernariato pop che pare essere nelle corde dell’artista canadese.

 

In chiusura, prendendo spunto da quello che Tess Parks racconta dell’album: "Guarda, ci sono così tante tragedie che stanno accadendo nel mondo in questo momento. È così facile sentirsi impotenti. Ci si sente autoindulgenti ad essere qualcuno che canta dal proprio punto di vista. Ma se non altro, questo album è un dono d'amore, il nostro contributo al mondo di qualcosa di bello che abbiamo fatto in mezzo a tanto dolore...”, possiamo intuire quale sia stato il desiderio della musicista nell’intitolare l’album al Melograno, e, sinceramente, non possiamo che condividerne il pensiero.