Cerca

Banner 1
logo
Banner 2
REVIEWSLE RECENSIONI
22/09/2021
The Killers
Pressure Machine
A un anno esatto da “Imploding the Mirage” i Killers tornano con “Pressure Machine”, un disco intimo e malinconico dove Brandon Flowers racconta storie tratte dalla sua adolescenza nello Utah.

Nonostante la critica a inizio carriera abbia spesso accolto i loro lavori con diffidenza, reputandoli superficiali e facendo scontare alla band il pregiudizio di provenire da Las Vegas (la città dell’inganno per eccellenza), va dato atto ai Killers, e al loro frontman Brandon Flowers in particolare, di aver saputo imboccare un sentiero che li ha portati con il tempo a sapersi destreggiare con perizia tra l’universale e il particolare, tra la magniloquenza e lo storytelling.

 

Se l’esordio Hot Fuss era infatti, per citare una loro canzone, glamorous indie rock & roll, da Sam’s Town in poi i Killers hanno iniziato a relazionarsi sempre di più con la loro città e le sue storie, portando Flowers a dedicare loro un intero album, Flamingo, il suo primo da solista. È attorno a quel periodo che i Killers sono diventati sempre di più per il loro frontman un veicolo per raccontare le storie della propria famiglia, come la giovinezza dei suoi genitori nella springsteeniana “A Dustland Fairytale” (recentemente ripubblicata in una nuova versione con il Boss in persona), la battaglia contro il disturbo da stress post-traumatico della moglie Tana e il blocco dello scrittore (descritti in Wonderful Wonderful) e la propria adolescenza. Questa, trascorsa negli anni Novanta a Nephi, una cittadina fondata dai Mormoni di poco più di seimila abitanti nello Utah più profondo, dove Flowers ha vissuto tra gli otto e i sedici anni prima di trasferirsi a Las Vegas, è il tema centrale attorno a cui ruota il nuovo Pressure Machine.

 

Pubblicato a un anno esatto da Imploding the Mirage, con Flowers e Ronnie Vannucci Jr. impossibilitati a portare in giro per il mondo il disco vista la cancellazione del tour previsto per il 2020, l’album segna il ritorno del chitarrista Dave Keuning, mentre il bassista Mark Stoermer non ha potuto partecipare alle registrazioni a causa delle restrizioni dovute alla pandemia in corso. Prodotto nuovamente da Jonathan Rado e Shawn Everett, Pressure Machine, a differenza dell’ottimo predecessore, che ha avuto il merito di aggiungere nuove suggestioni al sound ormai consolidato della band, ha toni volutamente più sobri e malinconici, quasi pastorali, guardando a lavori come Nebraska di Bruce Springsteen (il termine di paragone più utilizzato quando si parla di operazioni di questo tipo), The Lonesome Jubilee di John Mellencamp e Automatic for the People dei R.E.M.

 

Ecco quindi che i synth (comunque presenti) e le chitarre à la The Edge lasciano ampio spazio di manovra agli strumenti acustici come il pianoforte, il mandolino, l’armonica (suonata da Joe Pug), il violino (di Sara Watkins dei Nickel Creek), la tromba (di Nate Walcott) e lo strumento Country per eccellenza, la pedal steel guitar, maneggiata a turno da Keuning e Matthew Davidson. Senza dimenticare le armonie vocali, che vedono l’intervento dei fratelli Goldsmith dei Dawes in “The Getting By” e di Phoebe Bridges, che duetta con Flowers in “Runaway Horses”.

 

Pressure Machine è quindi un disco calmo e riflessivo, che sa di deserto e di frontiera, con Flowers nella veste del cantastorie. Un cantastorie che forse non raggiunge le vette dello Springsteen di Nebraska o del Willie Nelson di Red Headed Stranger, ma riesce comunque a stregare l’ascoltatore con storie di morte (“Quiet Town”), dipendenza (“West Hills”), omofobia (“Terrible Thing”), violenza domestica (“Desperate Things”) e sconfitta (“Cody”). Vicende che raccontano di un’America rurale dura e ancestrale, dove vige un codice di comportamento legato alla terra e alla famiglia, e dove la felicità del singolo si sacrifica in nome del dovere e del rispetto. È un’umanità fragile, ma allo stesso tempo fiera e indomita, che sembra uscita da un romanzo di Kent Haruf o di Cormac McCarthy e che Flowers ha la capacità di saper raccontare senza giudicare.

 

Nonostante l’impegno profuso da Flowers nel cesellare i testi (scritti prima della musica), però, bisogna ammettere che è evidente come i Killers continuino a dare il meglio nella loro versione più esplosiva (quando arrivano “Quiet Town” e “In the Car Outside” la differenza è palpabile), mentre le parti di dialogo con le interviste agli abitanti di Nephi che collegano le varie tracce alla lunga appesantiscono il disco, rendendone l’ascolto sì molto emozionante ma allo stesso tempo discontinuo (tanto che la band ha reso disponibile sui servizi di streaming anche una versione abridged che dura ben cinque minuti in meno). Detto questo, Pressure Machine non è per nulla un mero esercizio di stile, ma un’opera sottilmente ambiziosa che ha la capacità di non lasciare indifferente l’ascoltatore. Forse non è il miglior disco dei Killers, ma è senza dubbio quello con più anima e cuore.


TAGS: JacopoBozzer | loudd | pop | PressureMachine | review | rock | TheKillers