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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
10/06/2024
Live Report
Primavera Sound 2024, 29/05-02/06/2024, Barcellona
Il Primavera Sound è da anni il "place to be" degli appassionati di "indie"... ma è ancora così? Il Coachella europeo forse è arrivato al capolinea, divenendo più instagrammabile che vivibile per i veri appassionati di musica. Qui l'articolo del nostro Luca, veterano del festival, che ci racconta il suo ultimo (in molti sensi) Primavera.

Sono appena tornato dal mio ottavo Primavera Sound e ho deciso che sarà anche l’ultimo. Ci si può sempre ripensare, certo, ma credo che a questo giro non accadrà: nel 2022, al termine della prima edizione dopo la pausa forzata del Covid (parlo della prima settimana, perché quell’anno eccezionalmente ce ne furono due e io ovviamente non ero potuto rimanere per tutto il tempo), costellata da un’affluenza senza precedenti e da tutta una serie di disagi organizzativi che me l’avevano resa quasi invivibile, avevo già giurato di dire basta. Poi però era successo che mi sono goduto alcuni concerti in tutta tranquillità (non da ultimo quello della reunion dei Pavement, che temevo avrei visto col binocolo e invece sono finito sotto al palco senza troppi sbattimenti), ho assistito ad alcune cose sublimi (tipo i Low in Auditori, una roba da togliere il fiato) e ho semplicemente concluso che non avrei potuto stare senza.

Quest’anno dico ancora basta. Paradossalmente, al termine di un’edizione più tranquilla delle altre, dove c’è stata molta meno gente del solito, dove, fan di Lana del Rey a parte, la zona dei palchi principali è stata costellata, almeno nella mia individuale percezione, da un tasso di vivibilità altissimo (ci ho visto diversi concerti riuscendo sempre a stare in ottime posizioni, a volte addirittura nelle primissime file), dove ho finalmente imparato a non farmi troppo rompere le palle dai casuali (cioè un buon 90% del pubblico) che non sono interessati alla musica ma solo a mettersi i glitter in faccia e a parlare con gli amici a voce altissima (però stanno tutti dove si suona, vai a capire perché); un’edizione in cui, tranne il giovedì sera dell’accoppiata The Armed/Wiegedood, ho sempre lasciato il Forum prima delle tre di notte, cosa che equivale ad andar via prestissimo; un’edizione, insomma, che mi sono goduto come non mai, per la prima volta concentrato solo su quello che volevo fortemente vedere, e non ad accumulare set o scampoli di essi, con una bulimia seriale che rischia di consumare inutilmente le forze.

 

Ho deciso di dire basta fondamentalmente perché mi sono stancato. Ho iniziato ad andare al Primavera nel 2015, per il semplice fatto che prima o poi, se ti piace la musica e frequenti i concerti, quello è un po’ il posto obbligato in cui andare, considerando pure che in Italia manifestazioni così non ne abbiamo mai avute e mai ne avremo. La verità però, è che quando ci sono arrivato io, il Primavera Sound aveva già smesso di essere quello che era all’inizio. Quando ci sono approdato per la prima volta, ad di là del fisiologico entusiasmo del neofita, si era già trasformato in una versione europea del Coachella, con la differenza che gli influencer non c’erano (il fenomeno era allora piuttosto pionieristico) e che la programmazione era ancora piuttosto fedele a quella delle primissime edizioni,  cioè quasi del tutto incentrata sull’Indie (parola senza senso, lo so, è per capirci) e i suoi derivati, sulla scena estrema e su quella più sperimentale e avanguardistica; Hip Hop, Trap, Pop e Urban in generale, tutte quelle contaminazioni che avrebbero fatto gridare allo scandalo i partecipanti della prima ora, se ne stavano ancora abbastanza lontani.

Era però già un festival totalmente mainstream, non per forza come nomi (alla mia prima edizione, tolti gli Strokes e i Black Keys, che comunque non sono giganteschi, c’erano tutte cose di media entità) ma di sicuro come numeri e tipologia dei frequentanti. I palchi grandi erano immensi, la folla superiore a quella che uno come me, che ha sempre detestato i concerti nei grandi spazi, avrebbe potuto reggere. Da qui in avanti è sempre stato un crescendo costante, pur con qualche sporadica flessione (vedi quest’anno) ma ho continuato imperterrito ad andarci, soprattutto perché, una volta superati tutti i disagi, la location rimaneva comodissima (unico grande Festival in centro città, dove non bisogna dormire in tenda, per capirci) e l’offerta di musica assolutamente abbondante (ogni anno riuscivo a guardare meno della metà delle cose che mi prefissavo nel momento dell’uscita della line up).

 

Che cosa è successo, dunque? È successo che, semplicemente, sono passati dieci anni: ho iniziato che ne avevo 36 e adesso ne ho dieci di più, ho meno energie, meno pazienza e, particolare niente affatto trascurabile, ho visto talmente tanti artisti, molti di loro più volte, da non avere più quell’urgenza disperata di dire: “se non li becco qui non li becco più”.

E qui arriviamo all’ultimo punto della questione. La line up, nelle ultime edizioni, si è decisamente normalizzata. Oddio, non trovare nulla di interessante è assolutamente impossibile, soprattutto quando parliamo di circa 250 act in tutto. Il problema, semmai, è che è cambiata la prospettiva: se un tempo questo era il luogo perfetto per trovarci chiunque avesse pubblicato un disco nell’anno in corso o nei mesi immediatamente precedenti, adesso le dinamiche sono un po’ mutate e pare che il “nuovo” abbia lasciato il posto al “consolidato”.

Faccio un esempio: delle diverse band che hanno esordito quest’anno e che hanno colpito gli addetti ai lavori, solamente le Last Dinner Party erano presenti. C’erano, è vero, chicche incredibili come i riformati Voxtrot o talenti ancora sconosciuti come Nieve Ella, ma a parte queste e altre eccezioni, la sensazione di aver a che fare con i “soliti nomi” è stata più forte rispetto a prima.

Prendiamo gli headliner o, comunque, quelli scritti in grande sul cartellone: i National hanno suonato qui tre volte nelle ultime quattro edizioni, Pj Harvey non la vediamo da otto anni ma è lei che si è presa una pausa, quest’estate fa parte della bill di tutti i principali festival estivi. Stessa cosa per Jarvis Cocker e i suoi Pulp, che ogni dieci anni o giù di lì decidono di girare un po’ in onore dei vecchi tempi: anche per loro, che qui sono già stati, quest’estate si apriranno i palchi di tutta Europa. E se forse potremmo guardare come ad una sorpresa i Vampire Weekend, che mancavano dal 2008 e che non ci sono mai venuti da quando hanno fatto il botto, non si può dire altrettanto per i Disclosure, per Mitski, per Lana del Rey, Roisin Murphy e Fka Twigs (che però ha dato forfait all’ultimo momento): nomi grossi, per carità, tutti molto interessanti nel loro genere, ma assolutamente non esclusivi e, soprattutto, tutti piuttosto facili da vedere dalle nostre parti (Mitski a parte, che infatti è una di quelle a cui ho dato precedenza assoluta).

 

Un festival ricchissimo, quindi, pieno zeppo di roba, ma pericolosamente senza identità, che ha perso quell’impronta per cui in tanti compravano l’abbonamento a scatola chiusa già ad agosto dell’anno prima, quando il prezzo è il più basso in assoluto. Oggi è ancora un place to be ma non per l’esclusività dell’offerta musicale, bensì per la sua natura di luogo perfettamente instagrammabile. Andare al Primavera, insomma, fa ancora molto figo, ma per i veri appassionati di musica, attenti alle novità e versatili amanti delle nicchie, è forte la sensazione che questo non sia più il luogo giusto.

Che tutto questo si declini in una generale crisi di presenze è forse possibile, dopotutto quest’anno non si è registrato il sold out (forse solo il venerdì, ma se anche fosse non farebbe testo, erano tutti lì per Lana del Rey, anche se pure Ethel Cain, che ha più o meno lo stesso pubblico, è stata molto seguita) e se uniamo questo dato alla conclamata crisi del Coachella, potremmo anche ipotizzare di essere alle prese di una pericolosa tendenza.

 

Detto questo, cosa resta di questo mio quasi certamente ultimo Primavera? Resta che ho finalmente visto i Pulp, godendomeli da pochi metri e colmando una lacuna che andava avanti da troppo tempo. Anche senza Steve Mackey la band era in grande spolvero, Jarvis Cocker quasi ringiovanito, c’era un’orchestra ad abbellire canzoni già di per sé stupende, e la scaletta è stata ovviamente ruffianissima e zeppa di classici, anche se da parte mia, mi sarebbero bastate “Disco 2000” e “Common People” per dichiararmi soddisfatto. Certo, hanno fatto il loro tempo, certo, un nuovo album non lo faranno mai e sì, per vederli mi sono perso Beth Gibbons, tornata sulle scene dopo circa due ere geologiche (una sovrapposizione da ergastolo ma che vuoi fare? Se non avessero fatto così probabilmente il palco principale sarebbe collassato). Però qual era l’alternativa? Non vedere i Pulp? Quando li si sarebbe recuperati? Faranno mai un altro tour?

L’altra cosa che resterà è che ho visto i Lankum in Auditori (quel famoso posto al chiuso che ha un’acustica incredibile e che è probabilmente uno dei migliori posti al mondo dove sentire un concerto) e che non riesco a trovare parole per descrivere che cosa sia stato. L’anno scorso sono stati il mio disco dell’anno; adesso hanno tirato fuori uno dei miei concerti della vita, al termine del quale volevo seriamente già andare in aeroporto perché dopo, onestamente, nulla sarebbe stato più come prima.

La terza cosa è stata Pj Harvey, che ha suonato dopo i Lankum e che proprio per questo rimane un pelino sotto nella mia personale classifica; però attenzione, il livello di autorevolezza con cui si è imposta e ha fatto vedere a tutti cosa vuol dire stare sul palco… beh, è una roba che andrebbe studiata a scuola.

C’è stato anche altro, certo; i National che ho rivisto dopo sei anni, in forma strepitosa in un set da due ore ad altissima intensità; i Vampire Weekend, in formazione allargata e con un feeling gioioso da piccola orchestra, colorati e divertenti; Mitski, che è stata penalizzata un po’ dal contesto (e dalla pioggia) ma che tutto sommato ha offerto una prova dignitosa e molto piacevole; i Mount Kimbie, che su disco ho sempre trovato così così ma che dal vivo mi hanno lasciato a bocca aperta; Nala Sinephro, col suo Jazz contaminato, tra arpa, sassofono e Synth, sempre nella meravigliosa cornice dell’auditori; E poi Yo La Tengo, che incredibilmente non avevo ancora visto e di cui mi hanno impressionato soprattutto i suoni, potenti e profondissimi nonostante fossero solo in tre, ma anche la noncuranza con cui sono passati dal Folk intimista al più feroce assalto Noise. Giganteschi.

 

Quindi è stato un bel Primavera, ma dopotutto non sono mai tornato a casa deluso (ripeto, è impossibile farlo). È stato però tutto fin troppo pesante, con la sensazione che la musica fosse spesso in secondo piano rispetto alla fatica di tutti gli sbattimenti, dallo stare in piedi fino a notte fonda, al dover schivare in continuazione gente improbabile e chiassosa. “Non fa più per me” è una frase che ho pronunciato molto di più degli altri anni, e forse è davvero il momento di dire basta e di accontentarsi di concerti singoli, lasciando perdere un modello, quello del grande festival, che da più parti viene indicato come in crisi.

C’entra probabilmente anche una riflessione che sto facendo negli ultimi tempi (e che sarebbe meglio sviluppare altrove, mi sono già dilungato troppo) sul fatto che la musica dal vivo e i grandi spazi non vanno d’accordo, se non per quei fan che intendono solo essere travolti dalle emozioni, per niente interessati agli aspetti puramente tecnico-estetici della performance di turno. Non so, guardavo le foto del pubblico felice alla Rcf Arena di Reggio per gli Ac/Dc, o all’Ippodromo di Milano per i Metallica, leggevo gente che scriveva fosse stato grandioso, sulla didascalia di una foto dove il palco non si vedeva neppure, e pensavo che per me quelli fossero da compatire, non da invidiare. Oppure, che poi mi dite che sono troppo stronzo, che si tratta semplicemente di gente che non è mai stata ad un concerto, oppure gli hanno fatto credere che i concerti sono solo quella roba lì.

Ecco, il Primavera era già molto simile a questo nel momento in cui ho iniziato ad andarci (anche se comunque i palchi secondari sono quelli di un medio-grande club, come dimensioni), con la differenza che adesso me ne sto rendendo conto sempre di più e sento di non riuscire più a sopportarlo.

E chi può dirlo, magari sono problemi che lo stesso Primavera comincerà a porsi, decidendo quindi di andare incontro ad un restyling. Difficile ma non così impossibile, soprattutto se il giocattolo, improvvisamente, non sarà più sostenibile. Nel frattempo quest’estate andrò ad altri concerti e sì, proverò anche qualche festival più piccolo. Se ne varrà la pena, lo scriverò.