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REVIEWSLE RECENSIONI
02/06/2020
Phoebe Bridgers
Punisher
“Punisher” è un disco forte, non semplicissimo da ascoltare, cosa di cui lei stessa è pienamente consapevole, visto che ha scherzato dicendo che avrebbe già allertato il suo analista, considerato il modo sorprendentemente aperto con cui ha raccontato di sé.

Phoebe Bridgers ha passato il lockdown a Los Angeles, la città dove è cresciuta e dove vive tuttora. Ha raccontato che da casa sua sentiva le sirene delle ambulanze, molto più numerose in quei giorni, e si diceva che, nonostante tutto, era bello che la vita continuasse comunque. Strano ottimismo, per una che ha intitolato il suo nuovo disco “Punisher” (“È dedicato ad una persona che non riesce mai a capire quando è il momento di smettere di parlare” ha detto in un'intervista) dicendo che “parla dell’apocalisse e di come fare ad avere ancora una vita privata quando questa avverrà”. Al di là della copertina, effettivamente intonata alla rappresentazione di un'imminente fine del mondo, c’è anche la conclusiva “I Know the End”, un lungo brano che inizia con un richiamo ingannevole al Folk scarno del primo disco per poi sfociare, dopo un break inatteso e molto efficace, in un crescendo di fiati, archi e voci che vanno dalla modalità coro ad una cacofonica bailamme di urla animalesche. Davvero è la fine del mondo? In realtà è un pezzo che racconta di un amore finito, ma nel dubbio l'autrice ha chiamato a raccolta tutti i suoi amici e i collaboratori di sempre, con molti dei quali ha fatto anche il resto del disco, e li ha messi dietro al microfono: Christian Lee Hutson, Lucy Dacus, Conor Oberst, Julien Baker e Nick Zinner degli Yeah Yeah Yeahs. Una bella famiglia, un indispensabile sostegno per immergersi nel processo creativo esorcizzando ansie e paure: lei lo ha detto più volte, che ama lavorare da solista con le modalità di chi fa parte di una band, perché in questo modo è più in grado di ascoltare chi le dice che una certa soluzione non va bene e propone strade alternative.

È cresciuta tanto, Phoebe Bridgers, dopo che l'esordio “Stranger in the Alps”, nel 2017 ne aveva rivelato la scrittura classica, ammantata di una malinconia adolescenziale, con un sottofondo di tragicità inespressa. La partecipazione al collettivo “Boygenius” assieme a Julien Baker e Lucy Dacus e il progetto Better Oblivion Community Center messo su assieme a Conor Oberst (folgorato sulla via di Damasco quando la sentì cantare per caso durante una serata a Los Angeles ai quali entrambi partecipavano) hanno contribuito a farla entrare saldamente in quella scena di singer songwriter al femminile che negli ultimi anni è cresciuta tantissimo (oltre ai nomi già citati, impossibile non fare quelli di Soccer Mommy, Snail Mail, Mitski, Alice Phoebe Lou e Japanese Breakfast) e che ha fatto molto parlare di sé anche nel portare avanti una certa battaglia di sensibilizzazione contro il sessismo nell’ambiente musicale. Da questo punto di vista, la Bridgers aveva guadagnato l’attenzione delle cronache lo scorso anno, quando era stata tra le sette donne che avevano accusato Ryan Adams di molestie sessuali. Una vicenda rumorosa, data la caratura del personaggio coinvolto, e che al momento parrebbe essere ancora avvolta da una coltre fumosa. Ad ascoltare “Kyoto”, il primo singolo tratto dall'album, parrebbe che i fantasmi del passato siano stati esorcizzati per l’ultima volta (alla vicenda era già stata dedicata “Motion Sickness”, al momento il suo brano più conosciuto), anche se il pezzo in questione sembra avere a che fare soprattutto col padre, altra figura problematica nell'esistenza dell'artista californiana.

Sia come sia, “Punisher” è un disco forte, non semplicissimo da ascoltare, cosa di cui lei stessa è pienamente consapevole, visto che ha scherzato dicendo che avrebbe già allertato il suo analista, considerato il modo sorprendentemente aperto con cui ha raccontato di sé.

Si sono spese molte parole sulle presunte differenze tra questo secondo album ed il precedente, con la vulgata a sostenere che, mentre “Stranger in the Alps” era molto più ispirato ad un “Emo Folk” fragile e gonfio di tristezza, questi nuovi brani sarebbero invece più sperimentali, con chitarre più graffianti, ritmi veloci ed un mood generale molto più scuro.

È vero solo in parte. C’è lo stesso team di produzione: la coppia Tony Berg/Ethan Gruska e lei stessa ha dichiarato che la scelta è stata fatta proprio per non cambiare troppo le carte in tavola. Allo stesso modo, il lavoro di scrittura è stato svolto coi solidi fedeli, vale a dire il batterista Marshall Vore, il chitarrista Harrison Whitford, amici di lunga data, che la accompagnano da sempre sul palco, e ovviamente Conor Oberst, che presta la sua voce in più di una canzone. A parte questo, c’è stato anche un lavoro molto più ricercato sui suoni e sugli arrangiamenti (di alcuni brani sono state registrate anche 15 versioni diverse) e sono stati inseriti molti più elementi nei vari episodi.

Il risultato è un disco a due anime: se da una parte il solito stile della Bridgers permane in canzoni come “Chinese Satellite” (arricchita dalla presenza di archi e percussioni), “Moon Song”, “Savior Complex” (con il clarinetto di Blake Mills) e “Graceland Too”, tutti momenti di grande intensità, dove la ragazza si dimostra un'ottima autrice ma anche un’interprete di notevole talento, dall’altra ci sono quei brani che, per dirla con Phoebe stessa, “non sono sperimentali ma ci abbiamo messo dentro molta più roba”: è il caso di “Kyoto”, un upbeat inusuale per i suoi standard, con un arrangiamento robusto, gli ottoni di Nathan Walcott dei Bright Eyes ed un ritornello che sembra fatto apposta per incendiare le folle; l’altro singolo “I See You”, un altro pezzo vivace impreziosito dal basso di Jenny Lindberg delle Warpaint; l'opener “Garden Song”, che ha dentro più chitarre ed una certa importata moderna e poi la title track, che è simile alle vecchie cose ma ha le chitarre molto riverberate ed un feeling generale molto fluttuante. Oltre, ovviamente, alla già citata “I Know the End”, con quella coda che non assomiglia a nulla di quello che la Bridgers ha fatto in precedenza.

Un disco che tocca livelli molto alti anche nei testi, dove emerge il ritratto di una persona per nulla pacificata (“All the skeletons you hide, show me yours I'll show you mine”), emotivamente ferita (“I will wait for the next time you want me, like a dog with a bird at your door”), insicura sui propri affetti e poco ottimista sulle prospettive future (I've been playing dead my whole life and I get this feeling whenever I feel good it will be the last time”).

Era atteso, questo “Punisher”, per vedere se la sua autrice avrebbe saputo confermare tutte le buone impressioni del debutto e dei due progetti nei quali è stata coinvolta. La risposta è più che positiva: manca forse un brano di grandezza assoluta come “Funeral” ma ciascuna di queste dieci tracce coglie nel segno, dimostrando come dopo Julien Baker (che al momento rimane inarrivabile), sul podio del nuovo cantautorato al femminile ci sia lei. Negli Stati Uniti l'avrebbero vista nelle arene, ad aprire i concerti dei 1975 e sarebbe stato un bel momento di consacrazione. Ci sarà modo di recuperare. Del resto, lei non sembra pensarci troppo: “Non c’è nessun futuro di cui parlare e anche se ci fosse, non sappiamo come sarà”. Al momento “Punisher” è tutto il presente di cui abbiamo bisogno.

 
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