I'm a Barbie girl, in a Barbie world
Life in plastic, it's fantastic
You can brush my hair, undress me everywhere
Imagination, life is your creation
("Barbie Girl" - Aqua, 1997)
“Abbiamo la bambola, abbiamo il BMW, abbiamo tutto”.
Queste le parole che l’uomo dice alla donna mentre ballano in una serata natalizia, circondati dalle luci di New York. Sono ricchi, sono belli, hanno una figlia e hanno la bambola.
L’inizio del film è volutamente poco chiaro dal punto di vista della mise en scène: vediamo dei bambini in abiti ottocenteschi, che si aggirano per le strade innevate a portare doni ai poveri. Siamo in realtà, ad una recita scolastica, con il padre compiaciuto che inquadra la scena con la sua videocamera. L’immagine si sgrana nei pixel e lo stacco avvolge nel rosso la madre che osserva dalle quinte la sua bambina.
Un gioco di specchi, una falsa prospettiva per una situazione che non è come appare. O, meglio, quello che appare è reale - vale a dire la loro felicità e benessere del momento - ma manca un dettaglio: sono una coppia di spacciatori. E per questo Natale impazza sul mercato la Party Girl, bambola dalle fattezze tutt’altro che infantili, per la quale i genitori si accapigliano nei negozi, cercando di accaparrarsi l’ultima rimasta. Lo stesso malcapitato padre resta attonito nel vedere queste scene di “violenza”, anche se si ritiene esente dal rischio di non riuscire a trovare ciò che sua figlia desidera. Pensa che sia sufficiente, infatti, togliersi dalle tasche un bel po’ di dollari da offrire alla commessa per avere la bambola, ma niente da fare: le scorte sono esaurite, deve mettersi in lista d’attesa. Figuriamoci! Non ha certo tempo da perdere: una volta messa a tavola la figlia con la domestica portoricana, dovrà uscire con la moglie per attraversare New York e recarsi in un altro appartamento, dove incontreranno i pusher di zona per la preparazione e consegna delle bustine di eroina. L’uomo, infatti, non si sporca le mani, non scende in strada; abita in alto, in un palazzo che all’entrata reca il nome “Executive”. È sì un esecutore che, suo malgrado, presto andrà molto vicino a qualcosa di simile a un’esecuzione. Una premonizione ci è suggerita nella scena in cui si reca in chiesa per ricevere i nuovi arrivi di droga dal prete: dopo lo scambio vediamo il suo corpo immobile circondato esclusivamente da legno, con due vasi ornamentali, uno per lato, e sulla sinistra si staglia il profilo di una donna che prega. Quasi una veglia funebre.
Quello che balza all’occhio, nello stile di Abel Ferrara, sono le riprese anguste degli ambienti, sia nella casa in cui abitano che in quella dove lavorano. Non c’è posto per alcun “focolare” né nella casa in cui abitano, dove la famiglia non si riunisce mai completamente attorno alla tavola (la bambina mangia con la domestica all’inizio del film, apparecchia la tavola per i suoi pupazzi e per la sua bambola, porta la colazione a letto ai genitori, ma anche questo momento di condivisione è guastato dalle notizie che stanno passando in tv), tantomeno in quella in cui lavorano dove il tavolo è pulito dalla madre prima di procedere alla preparazione delle dosi.
La presenza costante sulle pareti, all’entrata del corridoio, nelle camere da letto, dei segni e simboli del Cristianesimo - Crocefissi soprattutto, oltre a raffigurazioni della Madonna su tende perlinate e quadri della Sacra Famiglia - richiamano alla Passione, più che alla Natività. Nelle interviste seguite alla realizzazione del film, il regista italoamericano dichiara che con la X del titolo ha voluto “portare Cristo all’interno del Natale”. Le riprese dei volti sono asfissianti: il regista sta addosso ai suoi attori con primissimi piani, nel segno della lezione di John Cassavetes[1] , il regista greco che con il suo primo film “Ombre”, diede un particolare vigore a un nuovo corso di cinema indipendente. “Shadows” raccontava delle vicissitudini di tre fratelli neri nel tentativo di integrarsi a New York, fotografati e accompagnati con un’andatura jazzistica, sia nelle riprese che nella colonna sonora.
Cassavetes era greco, Ferrara è originario di Sarno; marito e moglie nel film sono portoricana lei e dominicano lui; i pusher del ghetto del loro giro d’affari sono afroamericani. Un frenetico crossover, per usare una parola in voga negli anni ’90 (epoca di ambientazione del film), alle soglie di inizio mandato a sindaco di Rudolph Giuliani, un altro italoamericano. Fin qui la pellicola riprende alcuni stilemi della filmografia a lui precedente;ci riferiamo a Coppola nel suo raccontare un’idea di famiglia a suo modo devota alla religione e a Scorsese per il suo lungo discorso, atto d’amore su New York, la città dalle mille luci[2]. Tuttavia per Robert De Niro ne “Il Padrino pt. II”, conservare delle armi per conto di un quasi sconosciuto - un paisa’ - rappresentava l’inizio della sua carriera malavitosa, mentre qui l’analogo gesto del marito (non abbiamo nomi, la moglie lo chiama papi, lui la chiama baby) lo porterà a essere rapito.
Ecco allora che per la moglie, che si era momentaneamente separata da lui per andare da un ricettatore a prelevare le Party Girl, pagandole a peso d’oro, inizia il Calvario del ricatto: consegnare loro per il riscatto, in tempi rapidi, più soldi possibili ricavati dal loro spaccio. E’ così che il castello di sabbia che si erano creati inizia a sgretolarsi, anche perché - potenza del Natale? – in quei giorni lo smercio di droga cala parecchio. Come se non bastasse la strana figura di uomo che la assilla, sembra interessato a scandagliare la loro vita, il loro rapporto di coppia, per giudicarlo. Oltre ai soldi, la richiesta pressante rivolta alla donna, riguarda la promessa di convincere il marito a togliersi dal traffico di droga. Lei non capisce, inizia ad andare in crisi, non sa più come uscirne: vediamo in primo piano la donna al volante totalmente inespressiva, proprio come la bambola, riflessa nello specchietto retrovisore. Vale forse la pena prestare una certa attenzione al fatto che a dire il vero, entrambi i volti, sia quello del marito che quello della moglie, per la maggior parte della durata della pellicola hanno quasi sempre la stessa espressione, salvo i rari momenti in cui si concedono di far emergere ciascuno il vero sé. Non è certo per caso che oltre alle immagini sacre vediamo comparire sulle pareti ritratti di pagliacci, maschere dal sorriso stampato che ai due manca.
Quando la mattina di Natale la loro figlioletta riceverà la Party Girl, esclamerà entusiasta che finalmente potrà lavarla, pettinarla, stirarle i vestiti e tutto quanto avviene nella vita reale di una famiglia. Padre, madre e bambina si riuniranno grazie al fortuito ritrovamento da parte della moglie/madre dei soldi necessari per il riscatto, che il marito custodiva per conto terzi, nell’altro appartamento. La donna non ne sapeva nulla, così come non era al corrente che lui avesse intenzione di espandersi in una nuova zona: era questo il motivo dell’incontro tra il marito e il contatto che poi lo ha tradito. Lui per primo ha, però, “tradito” il fondamento della loro coppia che era la condivisione, il fare squadra. Nonostante ciò la moglie, di fronte alle ecchimosi sul costato del marito, non può che perdonarlo facendosi promettere che in futuro dovranno dirsi tutto, così come avevano sempre fatto in passato. Arrivati a questo punto, resisi conto dello scampato pericolo mortale che avrebbe portato alla disgregazione del nucleo familiare, inizia per la coppia il tormento delle domande sul futuro: “Quanto andremo avanti con tutto questo? “Tua figlia sta iniziando a chiedere che lavoro fa suo padre”, “Mi ci vedo già: partecipare a quegli incontri a scuola dove le mamme e i papà sono invitati a raccontare che lavoro fanno davanti a tutti. Ci pensi?”. Di fronte a questi interrogativi, però, i due genitori non trovano una risposta chiara e immediata, a quanto sembra decidono, almeno per ora, di non decidere e dopo questa parentesi di riflessione tornano a reimmergersi nel loro mondo e inevitabilmente tutto riparte, le feste, il glamour, lo smaccato benessere: è Natale, scende la neve. Non fosse che i suoi scagnozzi disturbano il marito nel locale dove sta festeggiando con la moglie e gli amici, per mostrargli un cadavere nel baule dell’auto (qualcuno giustiziato per fargli un regalo, anche se non richiesto): ecco che la presa di coscienza della brutalità del mondo in cui vive, di cui finora ha fatto parte senza sporcarsi le mani, lo raggiunge a una distanza talmente ravvicinata (ancora un corpo a corpo, fatto di carne e sangue, come nel pestaggio da lui subito) che lo tocca e lo annienta. Non gli resta che rientrare, riprendere il ritmo come gli dicono gli scagnozzi, e infatti la scena del suo rientro nel locale è accompagnata da un pezzo molto ritmato. Quindi viene invitato a cantare e celebrato come l’uomo che “tanto bene ha fatto per i ragazzi del nostro quartiere”, in un finale apparentemente aperto che rimanda per forza di cose a quello de “L’assassinio di un allibratore cinese” del Cassavetes citato prima (il padre di Abel Ferrara era un allibratore). Nel film degli anni ‘70, avevamo Ben Gazzara, ancora una volta un italoamericano, che dopo essersi preso un colpo di pistola, portava comunque avanti la conduzione della serata nel suo locale. Qui abbiamo Lillo Brancato jr. (cognome italiano, volto molto somigliante a quello di De Niro da giovane, con tanto di neo), ormai consapevole di essere ingabbiato dalle regole di un mondo senza possibilità di redenzione[3].
‘R Xmas. Il nostro Natale. Auguri.
Post Scriptum. Non è possibile non pensare, mentre scriviamo, di bambole, alla Perky Pat de “I giorni di Perky Pat” del sempiterno Philip K. Dick: bambola androide con cui un’umanità fuggiasca alle prese con un futuro post-atomico, era costretta a giocare vestendola, pettinandola e accudendola in vari modi, in una sorta di ricreazione della realtà scomparsa[4]. Così come non si può non percepire il rimando al finale di “Eyes Wide Shut”, con Tom Cruise e Nicole Kidman - marito e moglie nel film e nella vita all’epoca del film - che, mentre girano in tondo ad un albero natalizio dandosi la mano, si chiedono come continuare insieme, dopo essere anch’essi scampati ad un grave pericolo per la loro vita di coppia. Un non piccolo dettaglio: si trovano all’interno di un centro commerciale. Luogo di anestesia consumistica, di oblio drogato. Un “non luogo”, per dirla alla Marc Augé.
[1] John Cassavetes, guarda caso, viene spesso ricordato come il regista che ha portato avanti la sua filmografia con una “famiglia” di attori che recitano più o meno in tutti i suoi film. Iniziando dalla moglie, Gena Rowlands.
[2] Ogni riferimento a “Le mille luci di New York”, fondamentale libro d’inizio anni ’80 scritto da Jay McInerney è dovuto, dato l’argomento droga. Anche in quest’opera il protagonista non ha nome.
[3] Oltre alla somiglianza fisica, il legame con Robert De Niro è biograficamente singolare, così come le vicissitudini criminali dell’attore, successive al film. https://it.wikipedia.org/wiki/Lillo_Brancato
[4] Compare anche in uno dei suoi capolavori dal titolo, in tema con l’argomento: “Le tre stimmate di Palmer Eldritch”, 1967