Neil Hannon non è molto a suo agio con la tecnologia, ama gli strumenti vintage ed è abituato a fare le cose con grande lentezza, come se vivesse in una dimensione temporale tutta sua.
Era da Office Politics (2019) che non usciva un disco dei Divine Comedy, uno iato di sei anni che ha di fatto attraversato tutto il periodo Covid in un’immobilità sostanziale ravvivata soltanto dalla tripla raccolta A Charmed Life.
Un paio di anni fa ha scritto alcune canzoni per la colonna sonora di Wonka, ennesima versione cinematografica del classico di Roald Dahl, questa volta diretta da Paul King. È stato un lavoro produttivo, che lo ha poi naturalmente portato ad Abbey Road, dove sono state incise le canzoni di questo Rainy Sunday Afternoon, tredicesimo disco in studio della sua creatura (non tantissimi, se si considera che è in giro dai primi anni novanta).
“Non puoi fare un disco di party songs, se registri ad Abbey Road” ha dichiarato recentemente il musicista di Eniskillen, Irlanda del Nord. E allora ecco un lavoro che se da una parte riprende tutta la magniloquenza orchestrale tipica della sua scrittura coi Divine Comedy, dall’altra ammanta il tutto con una buona dose di grigia indolenza e malinconia. È la tipica atmosfera da “pomeriggio domenicale piovoso”, ben rappresentata anche dalla copertina, che ritrae il nostro eroe a, tavolino di un pub, con sguardo pensieroso davanti ad una tazza di caffè.
È il mood della prima canzone, che ha funto anche da singolo apripista, “Achilles”, che riprende l’omonima poesia di Patrick Shaw-Stewart, scritta nel 1915 con le trincee della Grande guerra fisse in testa. C’è la dimensione della morte, la dimensione senza tempo dell’epica che si sovrappone alla tragedia della modernità. Il tutto reso a meraviglia dalla scrittura di un Hannon che è come sempre paroliere talentuoso e ispiratissimo (è curioso che in molte delle interviste che ha rilasciato gli abbiano chiesto se avesse mai pensato di scrivere un libro, ma lui abbia sempre risposto di non trovarsi a proprio agio con quel tipo di lavoro). Per il resto, abbiamo di fronte un brano aperto da una semplice chitarra acustica, subito doppiata da un’orchestrazione dall’impronta cameristica; l’interpretazione vocale è sontuosa, calda ed espressiva, esattamente come ci ha abituato in tutti questi anni (anche se, sarà la mia impressione, mi pare che in questo album si sia superato). Ritornello efficacissimo, con quel po’ di ritmica che entra a rendere il tutto più dinamico. Se l’assenza così lunga è servita per produrre canzoni di questo calibro, ne è valsa davvero la pena.
“The Last Time I Saw the Old Man” si muove tra piano, orchestrazioni ed un magnifico solo di tromba. È una ballata triste che butta in faccia all’ascoltatore la propria fragile dimensione mortale senza troppi commenti o riflessioni (è semplicemente la cronaca, a tratti anche piuttosto cruda, dell’ultimo incontro di Neil con suo padre, da tempo malato di Alzheimer). L’eco di Jazz che si respira nel finale costituisce un dettaglio di rara preziosità, la misura ulteriore di quello che è senza dubbio uno dei più grandi talenti della scena Pop.
Ci sono gli anni ’60, da lui amatissimi e ancora oggi punto di partenza per canzoni che suonano già come classici senza tempo: “The Man Who Turned into a Chair”, impreziosita da un controcanto femminile, “Mar-A-Lago By the Sea”, che sembra uscita dal repertorio di Frank Sinatra e che potrebbe pure piacere a Donald Trump, se non fosse per il contenuto esplicitamente satirico del testo (il riferimento è ovviamente alla famosa villa di Palm Beach, Florida, che l’attuale Presidente degli Stati Uniti acquistò a metà degli anni Ottanta); ancora meglio è “I Want You”, pianoforte, orchestra e crooning melanconico con un testo che, sebbene costituisca un’infilata di luoghi comuni (solito espediente retorico del “gli altri vogliono questo e quello, mentre io voglio solo te”) si inserisce perfettamente nel soffuso romanticismo evocato dalla musica.
La title track e “All the Pretty Lights” lavorano tanto con l’orchestra e risentono forse più delle altre del recente lavoro sulla colonna sonora, le suggestioni cinematografiche sono molto più evidenti.
“Down the Rabbit Hole” ravviva l’atmosfera con incursioni di chitarra elettrica e un piglio decisamente più Rock, mentre “The Heart of a Lonely Hunter” è quasi totalmente acustica e presenta ancora una volta intuizioni melodiche disarmanti nella loro bellezza.
In chiusura, “Invisible Thread” è una dolcissima dichiarazione d’amore a quei legami che uniscono le persone e che le varie vicissitudini della vita non hanno il potere di annullare.
Un ritorno splendido, e dopo tutti questi anni sulle scene non è affatto scontato uscirsene con un disco così. Appuntamento il 25 febbraio a Milano.