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REVIEWSLE RECENSIONI
20/10/2018
Joe Bonamassa
Redemption
Redemption è un disco veramente riuscito, che non presenta novità per chi già conosce il menù della casa, ma che conferma come Bonamassa sia uno dei migliori interpreti del genere

La prolificità di Joe Bonamassa è un dato di fatto incontrovertibile. Ogni anno, le uscite a suo nome, sia che si tratti di dischi solisti, dischi live, collaborazioni con Beth Hart, comparsate in lavori altrui (il tributo di Mahalia Barnes a Betty Davis, a esempio) o progetti paralleli (l’eccitante avventura Black Country Communion, prima interrotta e poi ripresa, e l’ecletttico divertissement con i Rock Candy Funk Party), ammontano come minimo a tre (nel 2018 due dischi sono già usciti, e questo è il terzo).

A fronte di un così cospicuo numero di pubblicazioni, bisogna dire che il chitarrista newyorkese ha sempre mantenuto, però, un ottimo livello qualitativo. Certo, a meno che non siate fans, non tutte queste uscite sono imprescindibili; tuttavia, è indubbio, che Bonamassa sia uno dei pochi musicisti al mondo capace di abbinare una variegata e numericamente consistente produzione, a straordinarie performance live (l’ultimo British Blues Explotion) e centratissimi dischi in studio.

Questo Redemption arriva due anni dopo Blues Of Desperation, continuandone la narrazione, dando cioè grande spolvero a quel rock blues che il chitarrista è capace di declinare in tutte le diverse accezioni. Anche in questo nuovo lavoro, Bonamassa dimostra di essere una macchina da guerra, in grado di maneggiare la materia con la consueta autorevolezza tecnica e con quella passione che ancora oggi lo fa suonare come un ragazzino carico di entusiasmo.

L’impressione, poi, è che il buon Joe stia molto migliorando anche nelle parti cantate e che abbia asciugato il suo stile, evitando eccessivi virtuosismi fini a sé stessi, cosa che nella prima parte della carriera adombrava il suo indubbio talento. Insomma, Redemption è un disco veramente riuscito, che non presenta novità per chi già conosce il menù della casa, ma che conferma come Bonamassa sia uno dei migliori interpreti del genere.

Si gode, quindi, e non poco, a partire dall’iniziale Evil Mama, attacco di batteria zeppeliniana, robusto arrangiamento con sezione fiati e coro femminile, groove funky e una serie di assoli da standing ovation. Una partenza a raffica, ribadita dalla successiva ed eccitante derapata boogie di King Bee Shakedown e dall’approccio hard della muscolare Molly O’, retaggio evidente della militanza con i Black Country Communion.

Se alcuni momenti, pur strutturati, restano solo dei buoni esempi di rock dall’impatto molto radiofonico (Deep In The Blues Again), Bonamassa dimostra però grande dimestichezza quando si cimenta con un suono più classico e di derivazione chicagoana, come in Just ‘Cos You Can Don’t Mean You, I’ve Got Some Mind Over What Matters e la travolgente Love Is A Gamble (con uno sfoggio di sudore e tecnica da par suo), o tenta strade meno immediate, come nella più intima e raccolta Stronger Now In Broken Places o nella complessa ed evocativa Self-Inflicted Wounds.

Non c’è bisogno di aggiungere molto altro per raccontare un disco che se non esce da territori ormai abbondantemente esplorati, testimonia però l’evoluzione di un musicista che, nonostante sia tra i più acclamati chitarristi al mondo, non smette di crescere in termini qualitativi e di innervare il proprio lavoro di un ardore quasi commovente. Imperdibile per i fan, consigliatissimo ai patiti della sei corde.