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REVIEWSLE RECENSIONI
19/07/2019
Dylan Leblanc
Renegade
Quel mood morbido e atmosferico che aveva connotato i lavori precedenti subisce con Renegade uno scossone, guadagnando in adrenalina, compattezza ed equilibrio

Non abbiamo mai messo in dubbio le qualità di Dylan Leblanc come songwriter; tuttavia, è fuor di dubbio, che la scelta di un grande produttore, con cui lavorare in sintonia, ha finito per assecondare e tirare fuori il meglio da un artista che sembra aver trovato finalmente una decisa e più spiccata identità. Giunto al quarto disco in studio, il primo dopo tre anni di silenzio, Leblanc si affida alle sapienti mani di Dave Cobb, e il risultato si sente, eccome.

Quel mood morbido e atmosferico che aveva connotato i lavori precedenti subisce con Renegade uno scossone, guadagnando in adrenalina, compattezza ed equilibrio. Basta la prima canzone, per rendersi conto che qualcosa è cambiato: la title track, tira via dritta, con un bel riff di chitarra, la ritmica tesa e umori che rimandano al grande Tom Petty. E’ una canzone splendida, anche se i fan della prima ora, probabilmente, si troveranno disorientati, perché inusuale.

Certo, non tutto possiede il piglio e la forza di questo incipit. Ballate intense come Lone Rider e Magenta richiamano inevitabilmente qualcosa che abbiamo già ascoltato nei predecessori, anche se Cobb, comunque, è riuscito a rendere queste canzoni introspettive assai ricche e vibranti da un punto di vista sonoro. Un lavoro di impasti e di equilibri. Che si sente, eccome, in brani come Bang Bang Bang (sullo scottante tema delle armi) e Damned (qui si parla di religione), in cui funzione benissimo il contrasto tra l’andamento rock delle canzoni e la voce di Leblanc, dolce e assonnata. I suoni danno energia e spessore alla musica, il timbro di Dylan, stempera e suggerisce fragilità.

Renegade è un disco piacevole, radiofonico, con melodie di facile presa, certo, ma non per questo banale o privo d’intensità e forza. Anzi. Poi, proprio in chiusura, Dylan, pesca dal suo songbook un gioiellino, Honor Among Thieves, classicissimo nelle sue orchestrazioni e compendio riuscito fra easy listening e pathos, che consolida il giudizio positivo su un disco davvero centrato. E diverso. Così, chi non ha famigliarità con l’artista, può senz’altro iniziare da qui; i fan che, invece, lo seguono dagli esordi dovranno abituare i padiglioni auricolari a un nuovo corso, decisamente più eccitato ed eccitante di quello che conoscevano.


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