Riesce difficile parlare di un disco nuovo di Charlotte Gainsbourg senza pensare al fatto che si tratta di Charlotte Gainsbourg che ha fatto un nuovo disco. Si corre il rischio di concentrarsi sul fascino dell’attrice/interprete a scapito dell’opera in sé. La Gainsbourg è un’artista fortemente eclettica a cui probabilmente va stretta la sola attività cinematografica come canale espressivo di una marcata identità. Colpa del suo albero genealogico, che nei rami più prossimi le ha consentito di fare il pieno sia della linfa della madre attrice che di quella del padre cantautore. Quello che è certo è che la qualità, sia sul grande schermo che tra i solchi delle tracce audio, resta sempre di livello inconfondibile.
Sta di fatto che, come prosieguo di una carriera in cui ha alternato la passione per il canto a una quarantina di film, questa coda di 2017 ha visto Charlotte Gainsbourg dare alle stampe il suo quarto disco (quinto, se consideriamo la colonna sonora della discussa pellicola “Charlotte for Ever”), ancora con una raccolta eterogenea di canzoni.
“Rest” è un album raffinato in cui la Gainsbourg è autrice dei testi (in francese e in inglese) di undici brani composti, prodotti e arrangiati da collaboratori perfetti per risultare complementari al talento della cantante, a partire da una metà dei Daft Punk (Guy-Manuel de Homem-Christo), il dj SebastiAn, il produttore Danger Mouse, fino a Owen Pallett e, addirittura, Sir Paul McCartney che lascia il suo segno con un cameo compositivo.
Il risultato è un paradosso, perché fondamentalmente ci troviamo di fronte a un album introverso e dall’approccio cupo, ispirato da un insieme di rabbia, dolore e tutto quanto possa aver provato la Gainsbourg dopo la scomparsa della sorella Kate, precipitata dalla finestra del suo appartamento parigino nel 2013. Nell’insieme, però, “Rest” suona così intenso da risultare appassionante, a tratti persino divertente, complice la facilità con cui un’esperta Charlotte spazia tra generi diversi e richiami più o meno evidenti ai suoi trascorsi artistici.
L’album si apre con "Ring-A-Ring O' Roses", un vero e proprio pezzo di modernariato con arrangiamenti alla Moon Safari (gli Air avevano partecipato alla realizzazione di "5:55") e caratterizzato dalle inconfondibili pennate di plettro al basso in stile “Je T'aime... Moi Non Plus”, per un suono molto rétro (o almeno come si facevano i versi agli anni 60 con la musica lounge negli anni 90) a partire dalla successione smaccatamente vintage di accordi della strofa.
In “Lying with you” torna alla ribalta la voce sussurrata con accento francese (e, come da tradizione, il suo alto potenziale erotico) che distoglie un po’ l’attenzione dalla musica e il coinvolgente tappeto di sintetizzatori. Ma Charlotte Gainsbourg sa quando cambiare registro se il brano lo necessita, come in “Kate”, il pezzo espressamente dedicato alla sorella morta e che riporta indietro l’orologio nel pieno degli anni 80, complice la straordinaria coda di stacchi strumentali con il pianoforte protagonista.
Dopo i sei minuti e rotti di synth-pop di “Deadly Valentine”, un brano che non sfigurerebbe in un disco dei Daft Punk prodotto da Giorgio Moroder o viceversa, ecco la francesissima progressione armonica di “I’m a Lie”, un riuscitissimo tentativo filologico della Gainsbourg di fare musica come usava ai tempi in cui era in auge suo padre, con un efficace quanto convincente armamentario di strumentazione analogica.
La titletrack “Rest” è forse il brano dall’atmosfera più moderna, la cui uscita è stata abbinata a un video inquietante caratterizzato da un’ossessiva ripetizione di reminiscenze probabilmente autobiografiche. A “Sylvia Says”, senza ombra di dubbio il brano più radiofonico dell’album, grazie a un ritornello decisamente ricercato, segue “Songbird in a cage”, canzone originalissima frutto della collaborazione con il bassista dei Beatles. Ma la parentesi british dura il tempo di un brano, perché con la ballata acustica di “Dans Vos Airs” e l’elettronica di “Les Crocodiles”, anche se con approcci diversi, si ritorna prepotentemente al di qua della Manica.
C’è ancora però il tempo di cambiare nuovamente atmosfera, prima della fine dell’album. “Les Oxalis” ci porta in pieno dancefloor d’antan, ma aspettate a mettere via il disco quando sfuma la coda di piano a supporto dell’assolo di sintetizzatore. Rischiereste di perdere una ghost-track a sorpresa che vi riporterà agli albori delle vostre reminiscenze. Chissà chi sarà la bimba che canta la filastrocca a cui è stata sovrapposta la musica che chiude “Rest” e che ci lascia tutto sommato con un mezzo sorriso sulle labbra. Un disco che non poteva finire meglio di così. “Rest” nell’insieme è un album dichiaratamente pop, mai banale o ripetitivo, ricco di spunti, multiforme e, soprattutto, fortemente ispirato.