Dieci anni fa i Ride suonarono al Primavera Sound di Barcellona, compiendo un insperato ed inaspettato ritorno 19 anni dopo il loro scioglimento. Il sottoscritto era lì e ricorda un main stage strapieno, con il pubblico a scandire all’unisono i testi dei pezzi storici, in un entusiasmo febbrile che oggi sarebbe impensabile nei luoghi più affollati del festival spagnolo (vero che l’anno scorso vi si esibirono i Pulp, ma stiamo parlando di ben altro livello di popolarità).
Nessuno però si sarebbe immaginato che dieci anni dopo i Ride sarebbero stati ancora qui, in tour abbastanza spesso da non fare più notizia (ma in questo caso è più una faccenda di hype, fattore extra musicale per eccellenza), interpretando una seconda parte di carriera solida oltre ogni aspettativa. La verità è che Andy Bell e Mark Gardener, lungi dall’interpretare la parte dei riconciliati per una serie estemporanea di show, si sono anche rimessi a scrivere assieme, sfidando il cambiamento dei tempi, in conseguenza del quale lo Shoegaze da loro espresso rappresentasse non molto di più che un pezzo di antiquariato.
Più moderni nell’impostazione, maggiormente Pop nelle sonorità, Weather Diaries e This is Not a Safe Place furono due dischi altamente credibili, capaci di reinventare un sound rimanendo al contempo fedeli all’impronta originaria. Interplay, uscito lo scorso marzo, è se possibile ancora più convincente, e se pure volessimo ancora cedere alla tentazione di considerare i Ride come un relitto del passato, commetteremmo un peccato di omissione riducendo la loro storia ai primi due insuperabili lavori.
Finalmente il tour dell’ultimo disco fa tappa anche a Milano, dopo che l’estate scorsa erano passati dalla bellissima cornice di Arti Vive, nei pressi di Modena (purtroppo non ero riuscito ad andare ma in generale quella è una rassegna che raccomando a tutti, per qualità della proposta e fascino della location): è un Alcatraz a capienza ridotta quello che accoglie il quartetto britannico, e dispiace oltretutto constatare come l’affluenza non sia pari a quella fatta registrare due giorni prima per i Murder Capital (fatto grave, visto che mancavano da sei anni).
Il set dei Soviet Soviet in apertura rappresenta una più che gradita sorpresa: il trio pesarese sta per tornare con un nuovo disco dopo diversi anni di silenzio (l’ultimo Endless è del 2016, a gennaio è uscito il singolo “Iris”) costellati anche da alcuni cambi di formazione, tanto che non saprei sinceramente dire (e mi scuso per questo) se quella vista in azione stasera sia la stessa dell’ultima volta che li avevo incrociati, durante il Ferrara sotto le stelle del 2021. Lo stesso Andrea Giometti (voce e basso) è parecchio cambiato, rapato a zero e senza barba, al punto da risultare del tutto irriconoscibile, se non fosse per l’ormai caratteristico timbro vocale.
Il loro è un set potente e privo di sbavature, con quattro pezzi nuovi e diversi classici (“Ecstasy” e “No Lesson” su tutti), un tiro come sempre notevole e la grande capacità di evocare sonorità gelide e a tratti asettiche, senza tuttavia mai tralasciare l’elemento melodico. Il materiale inedito non sembra, al primo ascolto, discostarsi troppo dal loro marchio di fabbrica (forse è leggermente meno carico a livello chitarristico, ma vedremo in seguito) e lascia intravedere un disco di alta qualità come i suoi predecessori. Bello vederli così in palla e affiatati, attendiamo con ansia.
I Ride si presentano al suono della nuova e potente “Monaco” e, seppur fisicamente invecchiati, non paiono aver perso nulla dell’antico splendore: in particolare Laurence Colbert è sempre una macchina dietro le pelli, il bassista Steve Queralt gli va dietro alla grande e questa potenza della sezione ritmica è il segreto principale dietro ad una resa live ancora così invidiabile. Andy Bell e Mark Gardener sono come al solito tranquilli e rilassati, più schivo e defilato il primo, nascosto dietro al proverbiale cappellino da baseball e concentrato sulle sue parti soliste (e a tratti su quelle vocali) che esegue sempre con grande precisione; Gardener è più gigione, saluta e ringrazia in italiano, sfoggia costantemente un bel sorriso in volto e conduce le danze con esperienza, sempre solido nonostante qualche piccola sbavatura di tanto in tanto.
La setlist, che presenta qualche piccola variazione ogni sera, si muove tra vecchio e nuovo ma non concede poi così tanto spazio ai classici: ci sono, questo è ovvio, ma nella giusta dose, con l’ossatura del concerto costruita attorno ad Interplay, del quale vengono eseguiti sei brani. Tra questi, l’anthemica “Peace Sign”, la lisergica “Last Night I Went Somewhere to Dream”, le coinvolgenti cavalcate di “Last Frontier” e “I Came to See the Wreck”, certificano tutte la qualità del nuovo lavoro, nonché la credibilità di un gruppo che non ha bisogno di ricorrere per forza alle loro pagine più celebrate, per dimostrare di che cosa siano ancora capaci.
Dai lavori post reunion vengono purtroppo estratti solo i singoli principali, ma la bellezza di “Future Love” (esagero se dico che si tratta di una delle migliori nel loro repertorio?) e “Lannoy Point” risulta alquanto sufficiente.
Fa piacere anche il ripescaggio di “Black Nite Crash”, dal controverso Tarantula, il disco che ne decretò lo scioglimento, di fatto il prodotto di un gruppo all’epoca già disgregato, e che però, a risentirlo oggi, non suona così male: di sicuro c’è che l’irruenza del pezzo in questione si inserisce perfettamente all’interno del concept generale dello show.
Gli estratti da Nowhere e Going Blank Again (più dal primo che dal secondo), per quanto ben amalgamati col resto della scaletta, fanno invece capire, se mai ce ne fosse ancora bisogno, perché i Ride siano da annoverare tra le più grandi band nella storia dello Shoegaze. “Vapour Trail”, “Cool your Boots”, “Dreams Burn Down”, “Seagull” con le sue suggestioni immaginifiche, l’immancabile “Leave Them All Behind”, che ha rappresentato anche il loro più grande successo commerciale, godono tutte di una resa straordinaria, durante le quali le chitarre di Bell e Gardener fanno il bello e il cattivo tempo, prendendosi e lasciandosi in un incessante inseguimento, con il muro di suono delle distorsioni amplificato dall’incalzare della sezione ritmica, e la limpidezza scintillante delle melodie vocali a fungere da efficace contrappunto. In più, le code strumentali vengono il più possibile dilatate e reiterate, particolare che contribuisce a rendere più affascinanti le esecuzioni.
Durante i bis Andy Bell si presenta sul palco con una maglia celebrativa dell’Arsenal (la sua squadra del cuore si stava giocando l’accesso alla finale di Champions League; immagino che, appena rientrato nel backstage abbia controllato il risultato e, resosi conto che mancavano pochi minuti e che tutto sembrava compromesso, abbia deciso di ricorrere a quest’ultimo gesto di scaramanzia) e c’è tempo ancora per una manciata di brani, tra cui una “Light in a Quiet Room” che vive tutta su una seconda parte lisergica e rumoristica, e l’incursione nel passato remoto di “Chelsea Girl”, ruvida e soffice allo stesso tempo, esecuzione pregna di urgenza, il modo migliore per chiudere un concerto di una bellezza insperata.
Band del passato ma ancora pienamente credibili, i Ride sono qui per restare.