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REVIEWSLE RECENSIONI
15/12/2025
Leatherette
Ritmo Lento
I Leatherette, con il nuovo Ritmo Lento, fanno gridare al miracolo anche i più accaniti esterofili: un lavoro ibrido, sfaccettato, che nulla invidia ai blasonati nomi stranieri, dove la band è capace di destreggiarsi abilmente anche nella dimensione live. Se non li avete ancora ascoltati, non è mai troppo tardi per accorgersi di loro, lo meritano.

L'Italia sta sicuramente nella periferia della scena musicale, ma poi esistono band come i Leatherette, in grado di smentire in parte il concetto. Michele Battaglioli (voce e chitarra), Jacopo Finelli (sassofono), Andrea Gerardi (chitarra), Francesco Bonora (batteria) e Marco Jespersen (basso) sono già da qualche anno parte di quel piccolo numero di act (altri potrebbero essere gli Al/paca, i Submeet o i Clever Square) che nulla hanno da invidiare ai più blasonati nomi stranieri, con la differenza però che nel loro caso all'estero se ne sono effettivamente accorti.

Negli anni passati hanno suonato in lungo e in largo in Europa, prendendo parte anche a festival importanti come il Great Escape o l'Inmusic, e Small Talk, il loro secondo album, ha ottenuto ottimi consensi anche al di fuori dei nostri confini. Recentemente hanno aperto per i Nation of Language a Milano e lì la distanza non si è proprio vista: per presenza scenica e padronanza della situazione, al momento il quintetto bolognese se la gioca senza problemi con Squid, Yard Act, Moreish Idols, Dry Cleaning e tutte quelle giovani band a cui possono più o meno essere ricondotti, e che hanno nella dimensione live uno dei loro punti di forza.

 

Ritmo lento, lo raccontano loro stessi, nasce da un desiderio di pausa dopo un periodo vorticoso fatto soprattutto di concerti. Il titolo (in italiano, come a voler ribadire ancora di più il concetto, anche se poi tutti i testi sono come al solito in inglese) dice esplicitamente di questo desiderio di modificare l'andatura, uscire dal circolo vizioso e frenetico dei tour per rimettere al centro l'arte dello scrivere canzoni.

E nel processo di scrittura (questo è l'altro dato interessante) si sono dati come obiettivo principale quello di non mettere paletti di sorta alla direzione che avrebbero preso. Il risultato è un lavoro ibrido e sfaccettato, che tuttavia taglia quasi tutti i legami con le produzioni precedenti: se l'etichetta “Post Punk”, con tutti i limiti che si porta dietro, poteva essere adatta a definire l'impronta sonora dei nostri, adesso non serve più a molto.

 

“Magic Things”, il brano di apertura, parla già in modo chiaro: un mid tempo solare e scanzonato che ricorda un po' i Pavement e un po' i Blur, con il sax che, come suo solito, disegna vivaci contrappunti e vaga libero nel finale. Lo strumento di Jacopo Finelli svolge in effetti un ruolo di raccordo tra passato e presente, detta i tempi e caratterizza gli umori, principale catalizzatore dei continui mutamenti ed evoluzioni cui queste canzoni vanno incontro. A questo giro, tuttavia, non è più impiegato alla maniera, per esempio, dei Viagra Boys, per marcare le dissonanze e le cavalcate strumentali ossessive e psichedeliche. Al contrario, contribuisce a caratterizzare una serie di canzoni dall'impatto prevalentemente Indie Rock e con un'attenzione decisamente inusitata alla melodia.

“Hey There”, in effetti, appare lontanissima dal loro stile, per come gioca con stilemi quasi classic rock, ma anche “Lovers Drifters Foreigners” stupisce per la sua prima parte da ballata in stile crooner, per poi proseguire con un'accelerazione al limite del Power Pop. Oppure “Anyway”, che ha quelle sfuriate anthemiche a la Guided By Voices, o una “Panic Attack” incalzante e nervosa, dove però non c'è nulla dell'atmosfera claustrofobica che ammantava Small Talk e Fiesta.

Il tutto con un abbondante campionario di break, rallentamenti, divagazioni strumentali e cambi di atmosfera che esplicitano tutta la libertà da loro sperimentata in sede di composizione.

 

La seconda parte è volutamente in contrasto con la prima, nel senso che se i sei brani iniziali mostrano i muscoli e lavorano di distorsioni, gli ultimi sei presentano un carattere maggiormente introspettivo, dove certe aperture melodiche sono ugualmente presenti (“Cold Hands”) ma al servizio di un tono più misurato, tra richiami all'Urban umbratile di King Krule (la title track, “Situationship”) e suggestioni ipnotiche e vagamente narcotizzanti (“New Bay”, “Sorry”).

Il tutto, come sempre, declinato con autorevolezza e maturità, quelle che si addicono ad una band importante come ormai i Leatherette possono essere definiti.

Forse per una volta occorrerebbe lasciare da parte la nostra cronica esterofilia.