Cerca

logo
REVIEWSLE RECENSIONI
02/04/2018
Il Fieno
Riverberi
Questo è un lavoro profondo e ricercato, che ha bisogno di tempo e che rivelerà i suoi segreti solo a chi saprà dedicarvisi a lungo, con pazienza.

Probabilmente il titolo stesso, “Riverberi”, dice di un qualcosa di non perfettamente a fuoco, di un’eco o di un riflesso abbagliante che impedisce di guardare a pieno l’orizzonte. Il secondo disco de Il Fieno, quarta uscita se contiamo anche i due Ep prodotti agli esordi, provoca la suggestione melanconica di chi guarda al proprio passato per trarne ispirazione e per capire come da questo si sia sviluppato il suo presente.

È un disco in bilico tra due dimensioni temporali, ma la nostalgia fa capolino in più di un episodio, dalla Polaroid di “1983”, alla bicicletta appoggiata al muro di “Galassie”, alla televisione che trasmette papa Wojtyla in “Everest”. Non è un’evocazione fine a se stessa, comunque. È più il tentativo di rispondere alle domande che prima o poi emergono all’interno del vissuto umano, di scardinare le certezze che ci siamo costruiti, facendosi provocare dalle cose che accadono. Nella constatazione, tragica e inesorabile che “la verità è che cambia anche la verità”, gioco di parole per nulla rassicurante che incornicia eloquentemente un brano (il secondo singolo “Lucertole”) che parla di attendismo e di occasioni perse.

Il bandolo della matassa non lo si trova, in queste nove canzoni. Ci si guarda indietro ma non come un rifugio, semmai si cerca di fare i conti con un mondo che, più si va avanti, meno si comprende. “Non lo so dove si va da qui”, dicono; ma anche, nello stesso brano: “La vita a volte ci rincorre, a volte invece smette di aspettare”. La paternità è un’opzione accarezzata e subito negata (“Io non voglio un figlio da proteggere, resto senza niente per stare più su”) ma con la morte bisogna per forza di cose fare i conti e non è una cosa semplice, si può solo registrare un enorme senso di assenza (“La gente rimasta qui non serve più a niente e non so perché tutto si muove ma è così strano se succede senza te”).

Alla fine rimane l’impressione che “sa di sangue la felicità” e che “siamo vampiri che ci nutriamo di noia e di anni cattivi che sanno solo di responsabilità.”. Oppure, un altro modo per dirlo: “Abbiamo sete e non saremo mai come voi”. Nel video di “Everest”, che è la traccia di apertura ed è anche stato il primo brano ad essere pubblicato, si vede un’unica inquadratura, quella di un salotto della media borghesia con i componenti del nucleo famigliare immobili in pose artificiose quanto innaturali. Al centro, un bambino, probabilmente la versione passata di Gabriele Bosetti, il cantante. La telecamera zooma lentamente su di lui e lo rivela sorridente, quasi beffardo. È questa idea del rifiuto di un mondo fittizio, imbavagliato (“Togli anche le regole, quelle che noi non seguiamo mai, quelle che un idiota poi ha scambiato per felicità”), dove la ricerca dell’autenticità è soprattutto fuga da una dimensione preconfezionata, che si avverte come costrittiva.

Liberazione però, non se ne vede neanche l’ombra. Se “I vivi”, nella sua tonalità agrodolce, sapeva anche essere ammiccante e inanellava una serie di brani dai ritornelli aperti che avevano il sapore di inni generazionali (“Poveri stronzi” e “Del conseguimento della maggiore età” sono indubbiamente quelli che più sono rimasti) questo gode molto di più di prima nel non offrire punti di riferimento e nel presentarsi a prima vista indecifrabile. La stessa “Everest”, che potrebbe essere un punto d’ingresso privilegiato, si muove invece su intenzioni differenti ed esplode solo nel finale, non nel ritornello.

Ci sono certamente le classiche pulsazioni Wave che vanno ad ammantare brani come “Lucertole” o “Galassie”, forse le più vicine al vecchio marchio di fabbrica del gruppo, seppur molto meno immediate. Colpisce anche la magniloquenza di “Porno”, una bella cavalcata con un inedito inserto di fiati nel finale, un pezzo che a conti fatti è probabilmente il migliore del disco.

I toni sono comunque dimessi, i ritmi molto più rallentati che in precedenza e tracce come “Lotus” (che ondeggia ipnotica in una certa reminiscenza dei primi Afterhours), “Levanto” (ballata fredda, dal sapore apocalittico), “1983”, drammatica istantanea di un tempo che non tornerà più, oltre alle due sognanti e delicatissime ballate “Due ragazzi immaginari” e “Canzone semplice”, fanno capire che il gruppo ha deciso di prendere una strada che mirasse a fornire suggestioni piuttosto che a trasmettere messaggi in modo diretto. È un passo avanti, comunque: il disco in generale si presenta maggiormente vario, incorpora soluzioni differenti ma è allo stesso tempo coeso, grazie al gran lavoro di Lele Battista in fase di produzione e arrangiamento (suo tutto il lavoro di tastiere, tra l’altro); un artista vero, che ha saputo comprendere e tirar fuori l’anima migliore di questa band e l’ha fatta suonare compatta e credibile come mai era avvenuto prima.

A conti fatti, l’unico problema di questo disco è proprio la sua maggiore ricercatezza. Chi si aspettasse una riedizione de “I vivi”, con nuovi inni da cantare a squarciagola, potrebbe rimanere deluso. Non c’è nulla, qui dentro, che possa funzionare al primo ascolto. Questo è un lavoro profondo e ricercato, che ha bisogno di tempo e che rivelerà i suoi segreti solo a chi saprà dedicarvisi a lungo, con pazienza.

Del resto, “Io non voglio essere altro che questo”. Lo dice Gabriele di se stesso ma vale anche per “Riverberi” nella sua totalità.

Conosciuti o meno che siano, rimangono uno dei migliori gruppi che abbiamo in Italia.