Noname in realtà un nome se l’è già fatto. Anzi, un nome lo aveva già prima di “Room 25”. Fatimah Warner nasce e cresce a Chicago tra le sfide di slam poetry e le collaborazioni in rima con la scena hip hop locale. Nel 2016 pubblica “Telefone”, un mixtape di esordio che racchiude una serie di composizioni sotto forma di conversazioni con interlocutori più che disponibili all’altro capo dell’impianto hi-fi.
Nemmeno avesse sbagliato numero, Fatimah fa armi e bagagli, si trasferisce a Los Angeles e inizia a lavorare a un primo album ufficiale con l’obiettivo principale di sbarcare il lunario e pagarsi l’affitto di una sistemazione, una stanza che qui prende il nome di “Room 25” dove 25 è l’età di Fatimah in questa fase della sua esistenza da sfruttare come spunto per il titolo/concept del disco stesso. Tutto quello che Noname porta con sé nella nuova vita - un passaggio che coincide con l’arrivo nella nuova città e la genesi del nuovo album - trova posto nel furgone a noleggio dipinto sulla copertina, andando a consolidare un ritratto artistico dalle tinte sempre più marcate.
I cambiamenti infatti non fanno perdere a Fatimah la grazia e la leggiadria con cui espone i suoi versi, la musicalità con cui inanella rime con quel parlato veloce e suadente che ne caratterizza l’andamento, un flow tutto d’un fiato con qualche efficace variante melodica al parlato. Lungo le undici tracce del disco, il timbro sottile di Noname conferma i suoi tratti salienti a partire dall’eleganza, un marchio di fabbrica che ricorda la personalità di Erykah Badu, con uno stile che si destreggia efficacemente tra vecchio e nuovo soul.
Non sono però solo questi gli elementi che contribuiscono alla riuscita di “Room 25”. Il secondo disco di Noname si caratterizza infatti per una solida componente jazz. La scelta felice di registrare i brani con un ensemble di musicisti in carne e ossa ci offre una diversa chiave di lettura del suo sound. Possiamo evitare infatti le semplificazioni con cui siamo abituati a liquidare con i soliti giri di parole i dischi di rap e mettere in risalto invece il fattore strumentale che si sedimenta nelle basi dei brani del disco, una musica tutt’altro che monotona e finalmente libera dai cliché di categoria.
Prendete la sequenza discendente dei coretti di “Self”, il giro di basso di “Blaxploitation”, i pattern ritmici tipicamente fusion di “Prayer Song”, le armonizzazioni di archi in “Window”, il funk downbeat di “Don’t forget about me”, gli spunti abstract e rarefatti della splendida “Regal”, il latin jazz di “Montego Bae”, il soul di “Ace”, gli accenti spostati che si rincorrono in “Part of me”, i toni blue di “With you”, il manierismo da soundtrack per grandi schermi di “No name”, una sorta di autobiografia che Fatimah mette in musica e nella quale ci ricorda che quando si parte, malgrado la coesistenza di gioia e dolore, non è il caso di dimenticare la strada che ci siamo lasciati alle spalle e che ancora si ricorda di noi e delle canzoni che ci ha ispirato.
E la questione non è solo che cosa dice, ma il modo in cui lo dice. Noname si contraddistingue per una grazia e un’eleganza unica nel panorama discografico della musica black e hip hop. La soavità dei toni di questa straordinaria artista convince l’ascoltatore a fare qualunque cosa gli si chieda: sorridere, ballare, commuoversi, riflettere, perdere l’equilibrio, amare il jazz, turbarsi con la poesia, e, soprattutto, smarrirsi nel labirinto della bellezza del suo disco, verso dopo verso.