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REVIEWSLE RECENSIONI
12/02/2018
Ought
Room Inside The World
Con il terzo album la band canadese si consacra come una delle realtà più originali del panorama post-punk di nuova generazione grazie a intuizioni compositive fuori da ogni standard stilistico.

Gli Ought sono tre americani e un australiano con base a Montreal autori di un post-punk originale e tutt’altro che immediato o, almeno, fuori dai canoni a cui siamo abituati. La loro particolarità è la naturalezza con cui danno vita a composizioni singolari intessute intorno alla forma canzone sfruttando però intuizioni eccentriche e continue metamorfosi talvolta clamorose, per cogliere le quali occorre scendere a compromessi con le proprie posizioni su armonia e ritmo. Uno sforzo di cui però vale sicuramente la pena e che ci permette di comprendere al meglio il loro concreto valore artistico.
“Room inside the world” è il terzo album degli Ought che esce pochi mesi dopo il disco solista di Tim Darcy, il talentuoso cantante chitarrista della band che colpisce per il suo timbro molto somigliante a Lloyd Cole (ve lo ricordate?). A parte questo dettaglio e piccoli rimandi sparsi tra le tracce del disco, non ci sono molti altri punti di riferimento o elementi categorizzanti, e questo è un bene. Gli Ought risultano così una delle poche band post-punk di nuova generazione non derivative, in grado di sfidare il pubblico di riferimento con una proposta musicale modernissima e completamente avulsa da qualunque cliché.
Il primo tuffo negli agitati flutti dello stile del quartetto canadese si intitola proprio “Into the sea” e si distingue per un susseguirsi di cambi di rotta tra ritmi e atmosfere opposte. Anche “Disgraced America” - uscito come singolo - si presenta come brano a due facce, con una prima parte a cavallo tra Parquet Courts e Velvet Underground e un ultimo minuto conclusivo di totale follia no wave con tanto di sgraziati acuti di sax. Stesso canovaccio per la veloce “Disaffectation”, in cui il pattern di basso e batteria della strofa si trova agli antipodi degli stacchi dispari del cambio.
Il brano che segue, “These 3 things”, è stato il primo singolo tratto dall’album, pubblicato a fine anno scorso e corredato da un geniale videoclip, mentre della seguente “Desire” risalta il contrasto tra voce solista e cori di accompagnamento e, soprattutto, l’ennesima coda in grado di condurre il brano in direzione opposta. La difficilissima “Brief Shield”, paradossalmente l’unico brano per certi versi associabile a una ballad, lascia il posto alla traccia più riuscita, una spettacolare “Take Everything” che parte come potrebbe iniziare un brano degli Smiths nel 2018 per poi alternarsi con un violento sviluppo noise, spinto e estremamente intenso. “Pieces wasted” impone all’ascoltatore un ulteriore zig zag tra parti in continua evoluzione l’una dall’altra per lasciare spazio all’ipnotica “Alice”, in cui l’ossessiva ripetizione di un piano elettrico sfocia in un finale aperto e rumorosissimo.
“Room inside the world” risulta nel complesso un ottimo lavoro perché in grado di spingere al dialogo l’ascoltatore e avvicinare a un livello di difficoltà superiore un pubblico uso a standard tecnici esecutivi altrove elementari e approssimativi. La musica degli Ought è sicuramente cerebrale ma tutt’altro che fredda e sempre risolta da una spontaneità accomodante e coinvolgente.