L'ascesa dei Royel Otis è stata rapida oltre ogni aspettativa e al momento non sembra conoscere battute d'arresto: dagli EP Bar & Grill e Going Kokomo, pubblicati tra 2021 e 2023, è stato tutto un susseguirsi di brani virali e di concerti sempre più partecipati, con l'esordio sulla lunga distanza Pratts & Pain, lo scorso febbraio, a consacrare un successo che sembra essere tutt'altro che un fuoco di paglia.
Hickey, il sophomore del duo australiano, non ha deluso le attese, presentando un'altra grande collezione di potenziali hit, frutto di una scrittura disinvolta e già totalmente in controllo, a dispetto della giovane età.
Per fortuna ce ne siamo accorti anche in Italia: se i connazionali Parcels difficilmente li vedremo nei prossimi anni, nonostante un live show al momento tra i migliori sulla piazza, i Royel Otis hanno fatto breccia piuttosto velocemente, così che dal Santeria, teatro della loro prima data da headliner, sono passati immediatamente al Fabrique, per altro con ottimi riscontri di pubblico (leggi: locale pieno anche se non c'è stato il sold out).
In apertura avrebbero dovuto esserci gli Still Blank ma per ragioni a me ignote hanno defezionato e al loro posto è stato chiamato Visconti. Avevo apprezzato molto DPCM, l'esordio dell'artista di Acqui Terme pubblicato nel 2022, che già dal titolo si configurava come una fotografia impietosa della “generazione Covid”, attraverso l'utilizzo di testi privi di filtri e di stilemi musicali fortemente radicati negli anni '90. Ragioni puramente pratiche, come la ormai ingestibile sovrabbondanza delle nuove uscite, hanno fatto sì che me lo perdessi totalmente per strada, tanto che il successivo Boy di ferro, risalente ormai allo scorso autunno, lo avevo a malapena registrato.
Mi trovo così a vederlo dal vivo per la prima volta e l'impressione è più che positiva: band di quattro elementi, approccio totalmente analogico e vecchia scuola, schitarrate irriverenti e attitudine al limite del Punk, con le nuove canzoni che, per quanto possa valere un primo ascolto in sede live, appaiono efficaci e coinvolgenti, sempre con testi in grado di offrire una lettura non scontata del contemporaneo.
Stanno sul palco una mezz'oretta, per un set molto tirato, impreziosito da potenti divagazioni strumentali sul modello E Street Band. Gran bella sorpresa, vedrò di recuperare il tempo perso.
Dopo un cambio palco inspiegabilmente lungo e un ritardo di quasi mezz'ora sulla tabella di marcia, ecco finalmente Royel Maddell e Otis Pavlovic, che dal vivo sono accompagnati da Tim Ayre (tastiere) e Tim Commandeur (batteria).
Il via alle danze lo dà la nuova “I Hate This Tune”, perfetta con le sue ritmiche catchy, mentre le successive “Adored” e “Heading for the Door”, entrambe dal disco precedente, contribuiscono a farci entrare definitivamente nel clima gioioso e liberatorio del concerto.
La ricetta degli australiani, una sintesi perfetta tra l'Indie Rock scazzato di Pavement e Beck e le velleità da Dancefloor dei Phoenix, con una spruzzata di psichedelia vintage presa in prestito dal loro connazionale Kevin Parker, è l'ideale per infiammare la scena e scatenare il pubblico, anche grazie ad un'abilità strabiliante nello scrivere canzoni (praticamente ogni tassello del loro repertorio è una potenziale hit).
Colpisce l'upgrade a livello scenografico, con uno schermo che proietta i video di alcuni brani e, trovata decisamente originale, scritte colorate che di volta in volta descrivono il tema della canzone, ne evidenziano le parti più significative del testo, o sollecitano il pubblico con divertenti comandi (“Dance with the person next to you” e “Put your hands in the air” appaiono al momento di “I Wanna Dance With You”).
Per il resto, i punti deboli sono gli stessi già riscontrati quando li vidi due anni fa a Ypsigrock: l'assenza del basso (con le relative parti affidate alle sequenze) toglie tantissimo alla “botta” della sezione ritmica, mentre il ricorso a tratti eccessivo alle basi alimenta la sensazione di artificiosità dell'insieme. Non aiuta neppure il fatto che in parecchi brani sia il solo Royel Maddell a suonare la chitarra, con Otis Pavlovic che si limita a cantare: i momenti in cui ci sono due chitarre sul palco risultano infatti più pieni e coinvolgenti. Mettiamoci anche la resa sonora, decisamente non al top, e avremo il quadro di una serata in cui non tutto è andato per il verso giusto. Insomma, i Royel Otis sono bravi e hanno un repertorio sopra la media, ma in sede live l'impressione è quella di una band che fa il minimo indispensabile, senza cambiare troppo l'intenzione dei brani, non offrendo nulla di più di quello che già fanno le versioni in studio.
Resta il fatto che, con canzoni di questo calibro, il concerto sia molto più che piacevole: gli estratti da Hickey funzionano benissimo (molto coinvolgenti soprattutto “Car”, “Who's Your Boyfriend” e “Say Something”) mentre le cose più datate, da “Kool Aid” a “Bull Breed”, da “Fried Rice” a “Sofa King” (“Milan, you're so fucking gorgeous” compare sullo schermo) confermano nuovamente tutto il loro potenziale, scatenando danze e cori a ripetizione.
Interessante anche il momento acustico, dove Pavlovic e Maddell rimangono da soli sul palco per eseguire la nuova “Jazz Burger” (tra le cose più atipiche del loro repertorio, che prima d'ora non si era troppo soffermato sulle ballate) e la cover dei Cranberries “Linger”, cantata in coro dai presenti. Immancabile anche la loro personale versione di “Murder on the Dancefloor”, il brano di Gregg Alexander portato al successo da Sophie Ellis-Bextor, che è stata una delle loro prime uscite a godere di una certa visibilità.
Il finale poi è tutto per “Oysters in my Pocket”, di fatto la loro prima hit. Un buon concerto, ma i Royel Otis non sono ancora quella macchina da live che il livello dei loro pezzi meriterebbero (da questo punto di vista, giusto per fare un esempio di una band affine, i Parcels sono su un altro pianeta). Sono comunque giovanissimi e hanno ampi margini di miglioramento. Nel frattempo godiamoci quel che c'è perché di gruppi così talentuosi non ne nascono proprio tutti i giorni...

