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REVIEWSLE RECENSIONI
16/09/2019
Miles Davis
Rubberband
Bella storia il jazz negli anni Ottanta. Quel Jazz che si apriva finalmente ai linguaggi della musica pop, al funk e al soul, facendolo rinascere dalle ceneri di un accademismo sterile. La musica improvvisata si riprendeva il posto come linguaggio popolare: quella che sarà conosciuta come fusion fu il tentativo, riuscito fino a che non sopraggiunsero le ubbie smooth, di riportare il jazz nelle sale da ballo e nelle arene da concerto.

Ricorderete certo band come gli Yellowjackets e gli Steps Ahead, gli album solisti di John Scofield e Larry Carlton, i nostrani Lingomania, ancor prima gli Weather Report, tutta gente che operò davvero una rivoluzione nel linguaggio capita ancora oggi da pochi adepti, gli stessi che furono fatti oggetto di scherno da parte dei soliti sapientoni.

In tutto questo minestrone non potevano mancare le attenzioni del maestro e genio Miles Davis, uno che già dette un bello scossone al paludato mondo jazz con l’imprescindibile “Bitches Brew”.

Il buon Miles dopo una trentennale carriera discografica con la Columbia, prese armi e bagagli per trasferirsi dalla costa est in quel di Los Angeles, fresco di contratto con la Warner Bros.

Il posto giusto al momento giusto, verrebbe da dire, luogo coacervo di una miriade di stili permeati dal comune denominatore del funk, verbo verso il quale anche Miles aveva alfine capitolato. Da James Brown a Prince passando per la tromba di Miles, questo più o meno è quel che avrebbe dovuto essere Rubberband e che non fu mai. Il disco infatti avrebbe dovuto essere pubblicato nel 1985, salvo ripensamenti di Davis che abbandonò il progetto per dedicarsi alla stesura di “Tutu”, album questo sì di fusion essenziale e glaciale, se vogliamo ancor più radicale di quel che avevamo ascoltato fino ad allora.

Rubberband ancor prima di questo avrebbe dovuto rappresentare un nuovo punto di partenza per ridare al jazz la credibilità perduta in troppe performance onanistico cerebrali. Per rimarcare la propria vicinanza al funk ed al soul il disco prevedeva la partecipazione di Chaka Khan e Al Jarreau come ospiti in alcuni brani e si sarebbe dovuto avvicinare a certe forme del pop britannico più immischiato con la musica black.

Fortunatamente i nastri non sono andati distrutti e giusto nel momento in cui scrivo, ci è data la fortuna di poterli ascoltare, grazie alla benemerita Rhino Records, dopo ben trentaquattro anni dal loro concepimento.

I produttori di allora Randy Hall e Zane Giles hanno ripreso in mano le registrazioni, le hanno ripulite e hanno coinvolto nell’operazione le cantanti Ledisi e Lalah Hathaway nonché il nipote di Davis e il batterista produttore Vince Wilburn Jr.

L’inizio è sfolgorante, “Rubberband Of Life” si bea della partecipazione di Ledisi alla voce, per un brano che inizia con rumori del traffico losangelino in sottofondo e le note inconfondibili di Davis, per poi svilupparsi in un pezzo soul grondante groove. È con il successivo “This is It” che iniziano le danze vere e proprie; il jazz che si fonde con il funk, la chitarra che ricorda quella di Prince, bassi profondi e la tromba e le tastiere glaciali di Davis (il Nostro in alcuni brani del disco ha suonato anche queste) a dire che la direzione intrapresa è quella giusta.

Nell’ottica complessiva dell’album il seguente “Paradise” è un mezzo passo falso, quello che mi esime dal dare il punteggio pieno al lavoro. Il brano, con quel suo incedere latin-spagnoleggiante, è un come una profezia della deriva che prenderà la fusion nella sua versione più facilona.

Ci riprendiamo alla grande con “So Emotional” superba canzone con una superba Lalah Hathaway alla voce, elegiaca e carezzevole, dove su tutto svetta Davis qui al massimo dell’espressività, denso e materico come non mai, sicuramente il punto più alto del disco.

Che dire ancora, il proseguo del lavoro è una sarabanda di sonorità funk estreme, intervallate da bridge melodici ed ariosi, come “Give It Up”, l’hard fusion di “Maze”, e “Carnival Time”, il fantastico sunshine soul pop di “I Love What We Make Together” interpretato da Randy Hall, pezzo che avrebbe dovuto essere cantato da Al Jarreau, cosa che purtroppo non è avvenuta per l’improvvisa dipartita dell’artista americano.

In “See I See” il basso Synth di Adam Holzman si insinua nelle orecchie e gioca con le acrobazie di Davis alla tromba, “Echoes in Time” per sole tastiere e tromba è l’unico rimando al jazz tradizionale, preludio al funk estremo di “The Wrinkle”.

Chiude il tutto la title track “Rubberband”, sigillo di un’era che davvero rivoltò come un calzino il genere e le convinzioni/convenzioni di molti.

Un disco, questo, di una modernità assoluta; dedicato a chi oggi si fa le seghe con le note ad mentula canis, “Rubberband” dimostra come si può essere davanti a tutti e con distacco, anche con un lavoro del 1985.


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