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REVIEWSLE RECENSIONI
Rumore Bianco
Apice
2024  (La Clinica Dischi/Sony Music)
IL DISCO DELLA SETTIMANA ITALIANA
9/10
all REVIEWS
05/02/2024
Apice
Rumore Bianco
Apice stupisce di nuovo: un'altissima qualità di scrittura, una profonda lucidità di pensiero che non si fa intrappolare dal clima di confusione e superficialità di quest’epoca del post-tutto e un'estrema varietà di scrittura, sempre in movimento tra intenzioni compositive e spettri sonori differenti. Una musica che va al cuore della vita.

Pensavamo di aver già detto e scritto tutto su Manuel Apice e invece ancora una volta è riuscito a stupirci. Rumore bianco arriva a due anni di distanza da Attimi di sole ma c’è una grossa differenza nell’impostazione di fondo: se il precedente disco raccoglieva molti brani che erano già usciti come singoli, alcuni anche parecchio tempo prima, questo risulta molto più compatto: è uscito un brano, “Cemento fresco”, giusto una manciata di giorni prima, ma per il resto la tracklist è composta unicamente da episodi che non avevamo avuto modo di ascoltare.

Un comportamento in controtendenza, rispetto alla moda odierna di centellinare il più possibile, ma un comportamento che non può che fare bene: viene salvaguardata l’idea dell’album in quanto progetto unitario, con un tema di fondo, con i pezzi che lo compongono a far parte di un unico disegno, nel loro tentativo di raccontare una storia e di svelare di più sulle ragioni del proprio autore.

 

Ho sempre ammirato Apice, oltre che per l’altissima qualità della scrittura, anche per la sua profonda lucidità di pensiero. Mi pare uno dei pochi, tra gli artisti della sua generazione, non solo a non farsi intrappolare dal clima di confusione e superficialità così tipico di quest’epoca del post-tutto, ma anche a provare ad intravedere dei modi efficaci e consapevoli per uscirne, o, se proprio non è possibile, di viverci dentro con sereno distacco.

Rumore bianco non fa eccezione e, piuttosto, prova ad alzare il tiro, fondendo il personale con il pubblico e raccontando gli ultimi due anni dimostrando notevoli doti di autoanalisi, una profonda capacità di introspezione declinata in testi dal notevole spessore letterario.

 

Tutto come al solito, insomma; se non fosse che a questo giro il salto di qualità è davvero sorprendente. C’è stato un lavoro d’insieme dei nomi più importanti di Clinica Dischi, da Angelo Sabia che lo ha coadiuvato nella scrittura di alcuni brani, a Leonardo Lombardi che li ha mixati e ha aiutato a produrli, a Marco Barbieri (Altrove) che ha lavorato su “Tutte le donne”, quello che è forse l’episodio migliore.

E poi Fabio Mano, anche lui impegnato alla produzione, e l’indispensabile Giovanni Versari al mastering. Per non parlare del numero enorme di musicisti che ci hanno suonato, decisamente troppo numerosi per nominarli tutti, ma che hanno riempito questo disco di fiati, archi, percussioni, chitarre e un sacco di altra roba, col risultato che queste dieci canzoni sono le più elegantemente vestite che Manuel abbia mai avuto.

Un lavoro di squadra, dunque, che riflette quel discorso di pluralità che il suo protagonista ha voluto consapevolmente portare avanti.

 

A balzare all’orecchio è sicuramente l’estrema varietà della scrittura, che si muove tra intenzioni compositive e spettri sonori differenti: dal Folk acustico di “Meridiane” (con quel particolare tema chitarristico ed un andamento sghembo e fantasioso piuttosto inusuale per l’artista spezzino) al quasi divertissement Blues di “Sparano” (che evoca atmosfere da “Western metafisico” per rubare una definizione che Baricco utilizza a proposito del suo ultimo romanzo), ai ritmi incalzanti e divertiti di “Lavorare, lavorare, lavorare”, alle ballate pianistiche, tradizionali e intensissime, di “Tutte le donne” e “La luna in mare”, l’up tempo rockeggiante e un po’ scherzoso de “Il tuo corpo è una montagna”, fino ad arrivare al crescendo commovente di “Cemento fresco”, il singolo che aveva anticipato il disco e che, inserito all’interno del contesto, funziona come una summa delle principali tematiche qui delineate.

Occorre poi un discorso a parte per i featuring, i primi dai tempi di “Barche” con Svegliaginevra (anche se lì era Apice ospite della cantante, nonostante poi fosse un brano che i due hanno scritto assieme) che da soli elevano esponenzialmente la qualità dell’intero lavoro. “Paura del buio” vede la partecipazione di Ibisco, che oltre a cantare ha suonato Synth e chitarra. È un incontro strano, questo, perché sono artisti che provengono da contesti musicali totalmente diversi, anche difficili da mettere insieme. Eppure, contro ogni previsione, il pezzo funziona che è una meraviglia: carrellata di personaggi (veri o fittizi che siano non è importante) provenienti dalla contemporaneità dell’autore, per delineare il quadro di una generazione che non riesce a liberarsi delle proprie inquietudini eppure non accetta più di farsi definire da esse. Ibisco entra nel ritornello, momento in cui il pezzo vira su quella componente Dark Wave che lo contraddistingue, senza tuttavia risultare in discontinuità con le strofe, anche perché l’atmosfera generale non è mai troppo illuminata.

La title track è stata invece scritta assieme a Rares (due featuring “bolognesi”, dunque, come la città che ha “adottato” Manuel per parecchi anni) che porta la sua vocalità Neo Soul in un brano anche qui molto intenso e per certi versi drammatico, tra i meglio riusciti del lotto.

 

Rumore bianco, concetto ambiguo e sfuggente reso alla perfezione dalla suggestiva copertina di Carlotta Amanzi, esprime la consapevolezza che “le lotte del nostro tempo (per dirla con Apice stesso) siano in realtà battaglie per liberarci dal nostro tempo, dalle sue storture ed eredità secolari”.

La riprova che la consapevolezza e la maturità degli artisti alla fine fanno sempre la differenza, e che in un’epoca in cui i più abbracciano entusiasti l’effimero e il superficiale, orgogliosi di quella che in realtà è una resa agli imperativi di chi detiene il potere, si può ancora fare musica che vada al cuore della vita, seguendo la lezione dei grandi che ci hanno preceduto, ma con una resa sempre ben radicata nel contemporaneo.