Lo abbiamo visto nel film Folklore: The Long Pond Studio Sessions, dove appare via streaming dal suo studio a Eau Claire, nel Wisconsin, per cantare “Exile” con Taylor Swift: un uomo solo in una stanza piena di sintetizzatori vintage, microfoni e strumenti musicali di ogni tipo, e – ovviamente – una luce che filtra da una finestra laterale con vista su un paesaggio mozzafiato.
Lui è Justin Vernon, colto nella sua comfort zone, gli studi April Base, dove è rimasto rintanato negli ultimi anni – con l'eccezione di una manciata di concerti nel 2022, recupero del tour mondiale di i,i interrotto bruscamente dalla pandemia –, pronto per riemergere come sempre con qualcosa che è allo stesso tempo un epitaffio e una rinascita, un addio e un nuovo inizio.
E SABLE, fABLE, quinto album del progetto Bon Iver, è proprio questo: il manifesto postumo di un dolore, ma anche il tentativo di infilarsi, quasi goffamente, dentro l’abito se non della gioia quanto meno della spensieratezza. Il fatto che Justin Vernon sia riuscito a fare entrambe le cose senza compromettere la propria identità sonora, è già di per sé una piccola impresa.
Ma facciamo un passo indietro. È dal 2007, con For Emma, Forever Ago, che Bon Iver è diventato sinonimo di isolamento, di nevi perenni (fisiche e metaforiche) e di un neo-romanticismo che ha influenzato intere generazioni. Con il tempo, Vernon ha affinato un linguaggio sempre più ellittico e introverso, avvicinandosi al glitch astratto. Se con Bon Iver (2011) ha creato paesaggi sonori sempre più complessi e stratificati, e con 22, A Million (2016) ha destrutturato la forma canzone in frammenti digitali, con i,i (2019) ha cercato un equilibrio tra astrazione e confessione.
Poi, a sorpresa, alla fine di ottobre 2024, è arrivato SABLE: un EP di tre brani spogliati all’osso, con la sola voce di Vernon accompagnata da chitarra, proprio come ai suoi esordi. Quelle stesse canzoni aprono oggi SABLE, fABLE, diventandone il prologo: un’introduzione intima e crepuscolare che prepara l’ascoltatore a un mondo completamente nuovo – più colorato, pop, e persino solare.
A ben vedere, però, SABLE è più di un semplice prologo: è la soglia tra due stati dell’essere. In “Awards Season” Vernon canta «I’m a sable / And honey, us the fable», in quella che suona meno come una confessione e più come una resa dei conti. Sable è l’ombra che ha avvolto il suo immaginario per anni; fable, invece, è la narrazione, forse illusoria, con cui cerchiamo di darci senso. Con questo disco, Vernon sembra finalmente affrontare il mito fondativo di sé stesso: la capanna nella neve, il cuore spezzato, la solitudine elevata ad arte – e forse, inaspettatamente, ha scelto di abbandonarlo.
Il 24 aprile, con un post su Instagram – una foto che lo ritrae con l'attrice Cristin Milioti mentre tiene in braccio un bambino, accompagnata dalla didascalia «TRUE LOVE IS A FABLE» – Vernon ha detto tutto senza dire troppo. La felicità non è più un’assenza da cantare, ma una presenza da proteggere e fABLE è la colonna sonora di quel passaggio.
Se SABLE è infatti introspezione pura, chiusa in sé stessa come una stanza in penombra, fABLE è il momento in cui si apre la finestra e l’aria entra. Vernon stesso ha detto che SABLE sta a Lo Hobbit come fABLE sta a Il Signore degli Anelli: il preludio necessario a un viaggio più ampio e ambizioso. E il viaggio inizia con “Short Story”, che già dal titolo finge misura ma spalanca subito le porte: «Oh, the vibrance / Sun in my eyes», canta Vernon in falsetto, mentre una cascata di synth e pianoforte accompagna questa improvvisa epifania. Poi arriva “Everything Is Peaceful Love”, e ci ritroviamo in un territorio che Bon Iver non aveva mai attraversato con tanta leggerezza: rime quasi infantili (tripping, slipping, ripping, lipping) e un ritornello che sembra sbocciare da un trip psichedelico, tra steel guitar e violini. È come se Vernon, per un attimo, diventasse un bambino che ha finalmente imparato a giocare all’aperto.
Questa è la chiave del disco: se il glitch-folk di 22, A Million e i,i serviva a deformare la realtà, il nuovo pop di fABLE prova, invece, a ricucirla con delicatezza. Brani come “Walk Home” e “If Only I Could Wait” (con Danielle Haim) suonano come episodi di una timeline alternativa in cui Vernon è cresciuto ascoltando solo Babyface e Shania Twain. “If Only I Could Wait”, in particolare, esplora una vena R&B morbida e malinconica, ma anche qui Vernon non rinuncia al suo stile ellittico, con un testo che privilegia il suono e il ritmo delle parole alla loro chiarezza semantica.
“Day One” sembra un frammento di quel momento irripetibile in cui il primo Chance the Rapper scopriva il gospel e lo metteva a servizio del rap: un collage di soul, sample accelerati e armonie stratificate che qui diventano terreno fertile per qualcosa di più personale. Con l’aiuto di Dijon e Flock of Dimes, Vernon costruisce un piccolo inno corale, luminoso e disordinato, in cui non sta solo cercando un suono nuovo – sta cercando un senso. «It’s time that I do testify», canta, e non è un vezzo lirico: è una vera e propria dichiarazione spirituale.
Chi conosce Bon Iver sa che l’idea stessa di “comfort zone” gli è sempre sembrata sospetta. Eppure, con fABLE, Vernon si avventura in spazi che finora aveva lambito solo con cautela: melodie perfettamente levigate (“From”), produzioni che strizzano l’occhio a una certa orecchiabilità pop, persino passaggi che sembrano flirtare con un’estetica da adult contemporary in versione indie. Il rischio? Perdere per strada parte di quella singolarità che lo ha sempre contraddistinto. “I’ll Be There”, per esempio, si abbandona a un R&B lucido e setoso, con Vernon nei panni inediti del crooner digitale: affascinante come concetto, ma distante da quel senso di fragilità emotiva che molti associano al cuore del progetto. È una svolta audace, ma anche il punto in cui l’euforia rischia di trasformarsi in stilizzazione.
Ma è proprio questo il coraggio di fABLE: invece di espandere ancora il proprio vocabolario, Vernon prova a semplificare, a tornare all’idea di forma canzone: a questo punto della carriera non ha più nulla da dimostrare e non ha più nulla da nascondere. L’album si chiude con “There’s a Rhythmn” e “Au Revoir”, un epilogo improvvisato che allenta la forma senza rinunciare a una certa tensione emotiva. «Maybe it’s the time to go / I could leave behind the snow», canta Vernon, ricordando ancora una volta che nel suo immaginario la neve non è mai stata solo meteorologia ma trauma, silenzio, esilio – e abbandonarla significa, in fondo, scegliere di vivere.
Prodotto da Jim-E Stack (già al lavoro con Caroline Polachek e Lorde), con contributi in fase di scrittura da parte di Mk.gee e Tobias Jesso Jr., SABLE, fABLE è forse l’album più accessibile di Bon Iver. Ma più che segnare un cambiamento radicale per Justin Vernon, testimonia quanto il mainstream si sia avvicinato all’estetica indie degli ultimi anni. Come molta musica contemporanea, le canzoni dell’album si muovono in una terra di mezzo: con un po’ più di pedal steel sarebbero country, con un beat più marcato diventerebbero R&B, con una produzione più levigata potrebbero scivolare nel pop.
Insomma, SABLE, fABLE non è forse il miglior disco di Bon Iver – non ha la coesione di Bon Iver né la carica sovversiva e radicale di 22, A Million – ma è senza dubbio l'album più vulnerabile, sorprendente e umano della sua discografia. E se anche qua e là scivola nel manierismo, è una testimonianza sincera del fatto che si può uscire dal proprio stesso mito per raccontare un’altra storia. Una fable, appunto, ma – finalmente – senza il sable.