Cerca

Banner 1
logo
Banner 2
RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
01/08/2022
Santana
Santana III
Il terzo album dei Santana, “marchiato” con il III per distinguerlo dal selvaggio esordio del ’69, è di una bellezza sfrontata. Il gruppo è ben amalgamato e suona fluido, senza remore, veleggiando verso ritmiche oscure ma intriganti, aggiungendo un che di misterioso ad un groove malizioso e a tratti piacevolmente inquietante.

A cavallo delle decadi Sessanta e Settanta la musica dei Santana possiede una forza innovativa senza paragoni, macina un’infinità di “stili” senza appartenere propriamente ad uno. Salsa, Boogaloo, Rock, Blues sono solo alcuni dei generi utilizzati all’interno delle loro composizioni o reinterpretazioni che ridefiniscono il concetto della cultura artistica latina, riprendendo e rivoluzionando ciò che c’era stato prima, da Mongo Santamaria a Ritchie Valens.

Sono solo passati un paio d’anni da quell’infuocata esibizione a Woodstock, dal primo, genuino, omonimo album a cui poi si è aggiunto Abraxas, capolavoro forse irraggiungibile a livello di hit e vibrazioni positive, ed ecco che ci si trova a fare i conti con un’altra meraviglia. Santana III è la parte finale di una perfetta trilogia, prima del cambio di rotta jazz fusion di Caravanserai, dimostrazione della predilezione al mutamento insito nell’ensemble capitanato da Carlos. E a proposito dei membri del gruppo, allo zoccolo duro formato da lui, Gregg Rolie, David Brown, Michael Carabello, Josè Chepito Areas e Michael Shrieve, si aggiungono due personaggi che inequivocabilmente fanno la differenza.

Thomas “Coke” Escovedo arriva a dar manforte al già tonitruante tappeto ritmico dal momento in cui, a inizio 1971, l’iconico “timbalero” Areas per poco non va all’altro mondo a causa di un aneurisma, da cui si riprende miracolosamente giusto per partecipare anch’egli alle session: il risultato è un’addizione spumeggiante, poderosa e contagiosa all’interno dell’opera. La seconda “nuova presenza” è l’allora diciassettenne enfant prodige della sei corde Neal Schon, che spinge a livelli siderali, con il suo estro, l’ispirazione del chitarrista messicano, stimolato dalla concorrenza del giovincello. La band gode di questa dolce, ma competitiva dualità sia dal punto vista melodico, sia da quello compositivo e l’opening strumentale "Batuka", completa riscrittura di un’originaria partitura di Leonard Bernstein proposta ai ragazzi al fine di partecipare al famoso programma televisivo The Bell Telephone Hour, ne è subito fulgido esempio. La potenza percussiva è alle stelle, ben spalleggiata dal lavoro incessante del trio Santana, Rolie e Brown, e in tale contesto selvaggio si inseriscono gli impetuosi assoli di Schon. Un pezzo misterioso con echi funky che profuma di notte, di tutto ciò che accade quando l’oscurità prevale sulla luce, e cominciano a vedersi o sentirsi cose che non avvengono al chiaro. 

 

In effetti la gran parte delle registrazioni hanno luogo dopo che il sole è abbondantemente tramontato negli allora appena aperti Columbia Studios, sulla Folsom Street di San Francisco. Qualcosa di magico si verifica in quelle improvvisazioni notturne. "No One To Depend On" è il secondo singolo e dimostra l’unicità dei Santana nel destreggiarsi e trasformare, adattandolo alle loro caratteristiche, pure il cha-cha-cha. Tutto nasce prendendo spunto da "Spanish Grease" di Willie Bobo, un artista con cui i “ragazzi” sono in profondo contatto. Escovedo e Carabello rielaborano una linea armonica del brano che diventa l’incipit, mentre Rolie scrive la  fragorosa sezione centrale, arricchendola con rutilanti fraseggi funk-rock. Il risultato è una canzone ancor oggi parte integrante dei live del gruppo, ove a una tonitruante sezione ritmica si amalgama il suono fluido e corposo della PRS - nel 1971 veniva invece usata la Gibson - di Carlos.

 

Santana III si rivela un’opera coerente e coesa, con il gruppo che sprigiona la sua intensa alchimia; siamo all’apice dell’armonia, fisica, spirituale e strumentale, e ciò si riflette nella musica ispirata. "Taboo" è il titolo della terza traccia e, come spesso capita in quell’era della Band, non compare poi nelle liriche, anche se è perfettamente appropriato analizzando il testo. Si evoca qualcosa di proibito, si indica un che di occulto: “Il tempo passa così lentamente senza di te, non riesco a capire perché i miei occhi aperti non riescano a vedere…lei fissa il nulla, qualcuno che avete visto tutti, non piange mai, mentre la vedo andarsene…”.

L’incedere del brano è lento, carico di atmosfera e affonda le radici nel blues, un po’ come successo per "Black Magic Woman" del precedente Abraxas. Stavolta la composizione è autografa, e vede sempre principale autore Rolie, con l’eccellente Areas a ruota nel ruolo di rifinitore, apportatore di sonorità latine. La chitarra “eterea” di Carlos Santana rende "Taboo" un piccolo gioiello da riscoprire e fa da contrappunto a quella energica di "Toussaint L’Overture", tumultuoso viaggio estatico celebrante, appunto, l’epico rivoluzionario di colore che “sconfisse” Napoleone ad Haiti, creando i presupposti per l’indipendenza di questo stato, senza più colonialismo e schiavitù. Un groove indimenticabile, per una canzone che vede la partecipazione alla stesura di tutti - o quasi - i membri del “sodalizio”.

 

“Everybody’s Everything ha una storia bizzarra. Si basa su Karate degli Emperors, che aveva uno di quei ritornelli che non riesci a toglierti dalla testa. Sono riuscito a contattare gli autori, Milton Brown e Tyron Moss e ad ottenere il via libera per cambiare le parole, in modo che si adattasse alle nostre peculiarità”.

 

Ancora una volta Carlos ha un’intuizione immensa. Così questo hillbilly nero, questa danza campestre, rafforzata dalla sezione fiati dei "Tower of Power", diventa anch’essa un cavallo di battaglia degli show dal vivo, come d’altronde la splendida "Guajira", una delle migliori rappresentazioni del Suono Universale forgiato dai Santana. L’appassionato cantato in spagnolo è dell’amico Rico Reyes, compositore del motivo insieme ad Areas - strepitoso in questa occasione pure al flicorno - e Brown, mentre il solo di piano arriva da Mario Ochoa, altro storico musicista sudamericano che aggiunge un tocco di salsa al saporito piatto latino della Band.

 

“A quei tempi possedevo un rolodex (schedario rotante n.d.r.) su cui annotavo i miei brani preferiti, e decisi di proporre Jungle Strut di Gene Ammons. Lo feci ascoltare proprio all’inizio delle sessioni di registrazione, al fine di trovare una direzione per il disco e il parere fu unanime. Il pezzo, uno strumentale soul-jazz, fu il primo ad essere inciso per il progetto”.

 

"Jungle Strut" è una colorata via per far scorrere gli impetuosi “soli multipli” del chitarrista messicano, mentre in alto, dal cielo, piovono tuoni e fulmini calamitati da congas, timbales e percussioni di ogni genere.

Curtis Mayfield è sempre stato una forte influenza per il leader dell’ensemble non solo dal punto di vista prettamente musicale, ma anche per quel coraggio di inserire liriche forti, “socialmente consapevoli” e gonfie di speranza all’interno delle proprie canzoni. "Everything’s Coming Our Way" è forse il primo tentativo di Carlos di responsabilizzarsi civilmente e la dimostrazione lo è pure la scelta di cantarla in prima persona, cosa che non capiterà spesso durante la sua lunga carriera. “Lo sento nelle mie ossa, nessun uomo è solo. Sorella, fratello, dallo stesso seme tutto sta venendo a noi, tutto sta venendo a noi…”, sono parole espresse con devozione, e intanto l’organo di Rolie imperversa.

Il finale è di quelli spettacolari, ci sono i ritmi afrocubani di "Para Los Rumberos" di Tito Puente, ancora “coverizzato” con gusto dopo l’indimenticabile hit "Oye Como Va". Ospite speciale Luis Gasca alla tromba in un invito a ballare senza sosta, dove in coro vengono intonati i nomi di Carabello, Chepito  e Santana prima che essi eseguano le rispettive parti.

 

Rock chicano, latino, psichedelico. Si sono persi gli appellativi per definire il sound di Santana III, però è davvero avvincente e stimolante approfondire l’evoluzione avvenuta e sfociata in tale pietra miliare. Per rendere ancora maggiormente entusiasmante l’analisi è d’uopo godersi la ricca Legacy Edition del 2006 con inediti in studio, ma soprattutto con all’interno la potenza della ribollente esibizione live al Fillmore West del 4 luglio 1971, avvenuta proprio l’ultimo giorno prima della chiusura di tale storico locale. Si tratta di un infuocato show testimoniante l’incredibile energia emanata dai ragazzi, dediti senza sosta a celebrare la loro passione in musica.

Tuttavia, poco dopo, forsanche per l’impossibilità di superare i traguardi raggiunti, subentra stanchezza e comincia la disgregazione di questa leggendaria line-up; la maggior parte dei membri “superstiti” si ritroverà 45 anni dopo per la pubblicazione del convincente Santana IV, ennesimo particolare capitolo della “saga” di un gruppo che, capitanato al solito dallo “sciamano” Carlos, non ha mai smesso di reinventarsi, anche nei momenti più bui, e incarna tuttora il ruolo di messaggero di pace, amicizia e libertà, grazie alla musica.