Qualcuno lo dà per certo, per altri, invece, sono solo insistenti rumours tutti da dimostrare: i newyorkesi Brand New sarebbero arrivati al capolinea dopo circa quindici anni di carriera. Una notizia francamente inaspettata per un gruppo che, in condominio coi connazionali Dredg, per un certo periodo, a metà del decennio scorso, ha raccontato al meglio la stagione dell’emocore. Non con una carriera tutta all’altezza, certo, ma con un grande disco, di quelli che definiscono e cristallizzano i contorni di un genere. Stiamo parlando di The Devil And God Are Raging Inside Me (2006), che dopo due album non proprio imprescindibili, ha rappresentato un definitivo scarto nell’evoluzione artistica dei Brand New, grazie al quale la band si è affrancata dagli impeti pop-punk dell’esordio Your Favorite Weapon (2001), divenendo, invece, alfiere di un alternative rock in chiave emo, strutturato e maturo. Science Fiction è, dunque, e probabilmente, l’ultimo capitolo della storia del gruppo, ed esce ben otto anni dopo Daisy (2009), il disco che nelle intenzioni di Lacey e soci avrebbe dovuto ripetere l’epopea del suo predecessore, con risultati che, invece, furono altalenanti. Un full lenght, dalla genesi particolarmente sofferta, la cui lunga gestazione, iniziata addirittura nel 2014, avrebbe dovuto portare alla pubblicazione del disco nel settembre del 2016, salvo poi rimandarne l’uscita, per il risultato insoddisfacente della resa finale complessiva. Un anno ancora di lavoro, concentrato più sul missaggio e sugli arrangiamenti che sulle canzoni vere e proprie, e alla fine, il quinto disco della band newyorkese ha visto la luce. Sessantun minuti, per undici tracce, il cui mood inevitabilmente risente delle ansie del travagliato parto e delle atmosfere fortemente nostalgiche che accompagnano spesso la chiusura di una storia importante. Non siamo però di fronte al capitolo triste solitario y final di una carriera: Science Fiction, nonostante il clima da canto del cigno, è un’opera perfettamente centrata, superiore per ispirazione a Daisy, e molto vicino per intensità al citato capolavoro della band. Rispetto a The Devil And God Are Raging Inside Me, però, il deragliare elettrico è più spesso sostituito da partiture ansiogene, la malinconia si è trasfusa nel dolore, gli accessi di rabbia in dolenti riflessioni. Non è facile affrontare l’ascolto del disco, perché le dodici canzoni che lo compongono sono pervase dal retrogusto amaro della tristezza (incide, in tal senso, anche il versatile timbro vocale di Lacey, che trova l’esatto punto di fusione fra il mood lacrimoso di Robert Smith e la furia angosciata di Jonathan Davis); eppure, l’idea di inserire dei piccoli stacchi tra un pezzo e l’altro (grida, voci filtrate, rumori sinistri) e la sensibilità con cui è stato costruito l’arrangiamento di ogni singolo brano (ascoltare le partiture di chitarra, ad esempio), fanno di Science Fiction un disco compatto, potente e ricco di suggestioni crepuscolari che, superato il primo ostico impatto, trovano rapide la strada d’accesso al cuore. Il saliscendi emotivo continua a essere l’intuizione più riuscita del combo newyorkese: così, alla tensione palpabile di Lit Me Up, drammatica dichiarazione d’intenti posta all’inizio dell’album, fanno da contrappunto l’arpeggio arreso di Could Never Be Heaven, struggente ballata declinata sul filo delle lacrime, l’accecante contrasto acustico-elettrico di Some Logic/Teeth, il cupo riff nirvaniano di 137, e il muro di chitarre di Out Of Mana, che si sgretola, poi, in una coda lo-fi di afflitta rassegnazione. Un filotto di canzoni senza cedimento, che sono valse al disco la prima piazza di Billboard 200 (quasi un miracolo se si pensa alla complessità dell’opera) e che vanno ad accresce il rimpianto per il possibile scioglimento di una band che sembra aver trovato nuovamente la creatività dei giorni migliori.