Julien Baker e Mackenzie Smith, in arte Torres, provengono entrambe dal Tennessee (tecnicamente la seconda sarebbe nata in Georgia, ma in Tennessee ha vissuto a lungo già durante il periodo scolastico), dove il Country è un’istituzione e fa parte dell’educazione musicale di chiunque, anche di quegli artisti che poi normalmente si mettono a fare altro.
Non stupisce dunque che ad un certo punto della loro carriera abbiano deciso di cimentarsi in questo genere musicale, tanto più che a livello di influenze lo hanno bene o male sempre lambito (Baker soprattutto col suo terzo album Little Oblivions e poi ovviamente col “supergruppo” Boygenius). La novità, semmai, è che abbiano deciso di farlo assieme, visto che sino ad ora le rispettive carriere non si erano mai toccate e, soprattutto, si erano mosse su territori musicali non del tutto omogenei.
Pare tuttavia che la cosa fosse nell’aria da un po’: nel 2016 si erano esibite assieme al Lincoln Hall di Chicago e sarebbe stato proprio in quell’occasione che sarebbe nata l’idea del progetto, concretizzatosi poi anni dopo a causa, immagino, dei numerosi impegni di entrambe.
Anticipato, come ormai richiede il mercato, da un numero forse eccessivo di singoli, molti dei quali erano anche già stati presentati dal vivo lo scorso anno negli Stati Uniti, Send a Prayer My Way è un disco che, sebbene non arrivi del tutto imprevisto, suona comunque in qualche modo anacronistico, soprattutto se si considera la giovane età delle due autrici. Nessun tentativo di svecchiamento, nessuna contaminazione “alternative”, nessuna soluzione moderna od ammiccante negli arrangiamenti: si tratta di un Country il più classico possibile, dalle melodie fuori dal tempo, con un approccio “naturale” e quasi filologico, ben diverso, per intenderci, dall’ibridazione Pop messa in piedi da Beyoncé lo scorso anno.
Producono e suonano quasi tutto loro (anche il banjo!), con aiuti di peso da parte di Zoë Brecher (batteria), Sarah Jaffe (basso), J.R. Bohannon (pedal steel) e Aisha Buenos (violino) che con i loro contributi hanno arricchito canzoni sempre ottimamente costruite.
Poco da dire sul songwriting: le due sono sempre state ottime autrici (sebbene Scott abbia avuto un cammino artistico più altalenante, almeno a parere di chi scrive) e a questo giro confezionano brani immediati e melodicamente vincenti, dove prevale di volta in volta un mood triste e malinconico (“Dirt”, “Bottom of a Bottle”, “No Desert Flower”) e un’atmosfera più rilassata e liberatoria (è il caso ad esempio di “Sugar in the Tank”, prevalentemente chitarristica, con un bel banjo in sottofondo, oppure “Downhill Both Ways”, con la sezione ritmica che contribuisce a rendere il tutto più intenso e movimentato).
Notevole come la confidenza con la materia prima dia loro modo di plasmare composizioni dallo spiccato sapore Western e che sembrano già in odore di Instant Classic (“The Only Marble I’ve Got Left” da questo punto di vista è sorprendente ma è molto bella anche “Tuesday”, costruita quasi interamente su una chitarra acustica arpeggiata), mentre il modo in cui combinano le voci, spesso armonizzate, è anch’esso un ingrediente che conferisce valore al disco, soprattutto perché i loro timbri che sono abbastanza diversi, hanno trovato la modalità giusta per coesistere senza problemi (l’apice di questa convivenza sta probabilmente nella drammatica ballad “Showdown”).
In definitiva si tratta di un bel lavoro, che è insieme la testimonianza di un’amicizia e l’omaggio a una tradizione da cui nessun musicista americano è mai riuscito veramente a liberarsi, e che in questi ultimi tempi sembra stia tornando progressivamente molto più in auge di prima.
Fin troppo derivativo e solo per amanti del genere, ma siamo abbastanza sicuri che i fan di entrambe le artiste lo troveranno di loro gradimento.